Un altro 8 marzo: i conti delle serve
Secondo l’Istituto Nazionale di Statistica, quasi 13 milioni di italiani tra i 18 e i 64 anni devono gestire responsabilità di cura verso propri familiari. Nel 2018, erano circa tre milioni le e i caregiver in Italia, onerati della cura di un parente affetto da malattie gravi e spesso non autosufficiente; al contempo, oltre dieci milioni sono state le persone con carichi legati alla dimensione della genitorialità ([1]).
Come ben evidenziato «essere impegnati in un’attività lavorativa e allo stesso tempo doversi occupare di figli piccoli o parenti non autosufficienti comporta una modulazione dei tempi da dedicare al lavoro e alla famiglia che può riflettersi sulla partecipazione degli individui al mercato del lavoro, soprattutto delle donne, le quali hanno un maggiore carico di tali responsabilità» ([2]).
La cura è, dunque, una “zavorra” per le donne, che impedisce alle lavoratrici di affermarsi in ambiti professionali. Le più recenti indagini mostrano come circa la metà degli uomini ritenga che le donne con figli piccoli non debbano lavorare (53%) e poco meno della metà (44%) ha indicato nelle madri, anche se lavoratrici, le principali responsabili della cura della e nella famiglia ([3]).
Sono (perfino) le donne a condividere l’idea di essere le principali “responsabili di cura”, rinunciando in partenza a tentare la conciliazione: risulta, infatti, che, oltre l’11% delle donne con almeno un figlio non abbia mai lavorato per prendersi cura della prole, mostrando un dato decisamente superiore alla media europea, pari al 3,7%. Nel Mezzogiorno, dove il dato arriva al 20%, si registra anche la quota più alta di donne che dichiarano di non lavorare per motivi non legati alla cura dei figli (ben una su dieci, il doppio delle media italiana e il triplo di quella europea).
Questa situazione è legata anche a stereotipi di genere, concentrati principalmente sugli aspetti legati alla maternità e le cui radici superano i confini del mercato del lavoro, segno di una difficoltà culturale, confermata da tutti gli indicatori strutturali sull’utilizzo del tempo ([4]) e che osta rispetto all’impostazione di rapporti di coppia realmente paritari rispetto alle attività di cura.
Le statistiche ufficiali hanno lungamente fatto coincidere il concetto di lavoro (work) con quello di lavoro retribuito (employment), benché sia da tempo noto che il lavoro svolto a titolo gratuito, entro le mura domestiche o attraverso organizzazioni di volontariato, contribuisce in maniera determinante alla qualità della vita delle famiglie. Nel 2013, l’OIL ha adottato una nuova e più ampia definizione di lavoro, al fine di guidare una reinterpretazione delle statistiche ufficiali e dare un ruolo a tutte le forme di lavoro che concorrono al benessere di una nazione. Secondo la nuova definizione, che si avvicina all’uso comune, il termine lavoro comprende «qualsiasi attività svolta da persone di ogni sesso ed età per la produzione di beni o servizi ad uso proprio o di altri» ([5]).
In questo contesto, le attività relative alla cura della casa e delle persone che ci vivono (siano esse bambini, adulti o anziani della famiglia), ma anche quelle di volontariato organizzato, aiuti informali tra famiglie e tutti gli spostamenti legati allo svolgimento di tali attività, impegnano in modo diverso uomini e donne.
Qualitativamente, la quasi totalità delle donne ha dedicato del tempo della propria giornata ad un’attività di lavoro non retribuito (92,3%), mentre la quota scende sensibilmente tra gli uomini (74,6%).
Quantitativamente, l’impegno delle donne è più che doppio, poiché si dedicano al lavoro di cura per oltre cinque ore al giorno, a fronte di poco più due ore maschili.
Le donne italiane, insieme a quelle rumene, hanno il primato nei Paesi UE per quantità di tempo speso, mentre gli uomini italiani, insieme ai greci – gli unici a svolgere meno di due ore di lavoro non retribuito – sono il fanalino di coda nella classifica, mostrando ancora un enorme gap di genere che caratterizza da anni il nostro Paese e che, solo di recente, ha mostrato dei primi segnali di contenimento, non ancora sufficienti a spogliarci della maggiore differenza di genere nel lavoro non retribuito ([6]).
Nel confronto con gli altri Stati europei che hanno condotto l’indagine, l’Italia è il quinto Paese per tempo dedicato al lavoro non retribuito: le persone tra 20 e 74 anni vi destinano, infatti, tre ore e mezza al giorno, svettando tra i Paesi occidentali ([7])].
Gli studenti, con un’ora scarsa al giorno di attività, sono i meno coinvolti in queste forme di impegno, con una quota di partecipanti che raggiunge il minimo dell’indicatore (55,5%): in altre parole, quasi uno studente su due non svolge alcuna attività di lavoro non retribuito e senza differenze di genere.
La quantità di tempo dedicato al lavoro non retribuito dalla popolazione cresce linearmente con l’età, passando da poco più di un’ora dei 15-25enni alle quattro ore e mezza delle persone di 65 anni e più.
Le casalinghe, che fanno del lavoro familiare (domestico e di cura) la loro attività prevalente, vi dedicano quasi sette ore al giorno, mentre le e gli occupati, impegnati per gran parte della giornata nel lavoro retribuito, scendono in media a quasi tre ore al giorno. Occorre rammentare, però, che il dato mette insieme le due ore scarse maschili e le quattro abbondanti delle donne.
In un Paese come l’Italia, caratterizzato da un modello di welfare familistico ([8]), in cui la cura (di bambini, anziani, disabili, soggetti fragili) è quasi completamente demandata a famiglie e volontari ([9]), il 65% è stato garantito gratuitamente dalle donne, che continuano a essere il vero pilastro sociale, a discapito di una loro maggiore partecipazione al mercato del lavoro retribuito.
Nella pandemia la situazione è letteralmente esplosa, perché sono venuti a mancare i luoghi di accudimento diurni per bambini, anziani e/o persone con disabilità. A tale carenza si è fatto fronte con il lavoro da remoto e, per il personale direttamente impegnato nella emergenza sanitaria, con lo strumento dei voucher di cura. In una curiosa spirale, il lavoro, di regola gratuito, prestato dalle nonne e dai nonni, è stato retribuito, emergendo in tutta la sua immensa quantità, che pure rappresenta solo la punta dell’iceberg del welfare all’italiana.
Nella coorte compresa tra 25 e 44 anni d’età, l’occupazione femminile massima si registra tra le donne sole (78,3%), con differenze di genere irrisorie, che iniziano a farsi sentire già per chi vive in una coppia senza figli, in cui il tasso di occupazione maschile sale di 7,6 punti percentuali, mentre quello femminile scende di 8,2 punti.
L’ecatombe occupazionale riguarda le donne in coppia con figli, ove la differenza di genere sale ulteriormente fino al 33,1%. Più elevato è, invece, il tasso di occupazione delle madri sole, che si attesta al 65,4%: la mancanza di una scelta alternativa le trattiene al lavoro.
La coppia, e non la culla, è dunque la tomba dell’occupazione femminile. Nel corso della vita gli uomini lavorano molto di più delle donne fuori casa; tuttavia, le donne fanno assai di più in casa, e sempre di più a mano a mano che l’età avanza.
Nei Paesi in cui uomini e donne lavorano più o meno per lo stesso numero di ore (Norvegia, Germania, Austria, Paesi Bassi), il gender pay gap è comunque elevato, perché la parità del carico orario è realizzata attraverso la divisione dei ruoli propria del modello male breadwinner/female part time earner. In questi Stati, infatti, i tassi di occupazione femminili sono molto elevati e del tutto in linea con i tassi di occupazione maschili, ma sono altrettanto ampie le quote di donne che lavorano a tempo parziale, facendosi carico del ruolo di cura. Il sistema prevede, a compensazione, un forte welfare statale, con assegni genitoriali assai generosi ([10]) e una previdenza basata su tre pilastri (pubblico, integrativo aziendale e integrativo volontario) che evitano la povertà senile.
Il modello dual earner/dual career ([11]), con una distribuzione paritaria dei carichi di lavoro retribuito e non retribuito, è, a oggi, un mero esercizio teorico, molto faticoso se non impossibile nei Paesi (mediterranei) in cui o le donne affrontano carichi di lavoro elevatissimi (raddoppiando l’impegno orario), oppure riducono o rinunciano all’impiego retribuito, condannandosi a una vita di dipendenza economica e a una vecchiaia in miseria ([12]).
L’auspicata revisione dei congedi genitoriali ([13]) non pare sufficiente a scardinare la situazione attuale, per la quale, più che una spinta gentile e a costo zero, serve un vero e proprio choc, che letteralmente “costi quel che costi”.
Va certamente accolta in termini positivi l’attenzione del Recovery Plan rispetto al potenziamento dei servizi di cura e alla riduzione dei forti divari di opportunità di assistenza ed educazione che caratterizzano il nostro Paese ([14]): insieme a queste opportune azioni, restano da aggredire pregiudizi e stereotipi, che impediscono alle donne silver di godere di una meritata età dell’oro.
([1]) Istat, Bes 2020. Lavoro e conciliazione dei tempi di vita, in https://www.istat.it/it/files//2021/03/3.pdf. Si tratta di quasi il 34,6% della popolazione, secondo un dato che non si discosta molto dalla media europea: nell’UE 28 (ultimo disponibile) sarebbero, infatti, centosei milioni (34,4%) i cittadini europei a dover affrontare quotidianamente responsabilità di cura.
([2]) Istat, Conciliazione tra lavoro e famiglia, 2018, in https://www.istat.it/it/archivio/235619.
([3]) Le disparità di genere in Italia, 2018, in https://www.governo.it/sites/governo.it/files/Indagine_Ipsos_sintesi.pdf.
([4]) Istat, I tempi della vita quotidiana – lavoro, conciliazione, parità di genere e benessere soggettivo, 2020, in https://www.istat.it/it/files//2019/05/ebook-I-tempi-della-vita-quotidiana.pdf.
([5]) Ilo, Resolution concerning statistics of work, employment and labour underutilization, 2013, in https://www.ilo.org/global/statistics-and-databases/standards-and-guidelines/resolutions-adopted-by-international-conferences-of-labour-statisticians/WCMS_230304/lang–en/index.htm.
([7]) Secondo Istat, I tempi, cit., il primato spetta ai Paesi dell’est e, rispettivamente, a Ungheria 3h 46’, Romania 3h40’, Polonia 3h 39’ e Serbia 3h 37’.
([8]) A.L. Zanatta, Le nuove famiglie, Il Mulino, 1993.
([9]) Secondo Istat, I tempi, cit., nel corso del 2014, le ore destinate alla cura di bambini siano state 5,7 miliardi, per un valore di 44,1 miliardi di euro. Questo lavoro è stato reso per il 29,2% dalla popolazione maschile e per il 70,8% dalla popolazione femminile. All’assistenza per adulti e/o disabili conviventi risultano destinate 815 milioni di ore per un valore di 6,4 miliardi di euro.
([10]) M. Naldini, Modelli e politiche sociali a sostegno dell’infanzia, in Minorigiustizia, 2018, 3, 23-35; G. Boesso, A. Vernizzi, Il riconoscimento dei carichi di famiglia nell’IRPEF in Italia e in Europa: alcune proposte per l’Italia, in Economia pubblica, 2001, 5, 5-47.
([11]) Il modello, ben descritto da J. C. Gornick, M. K. Meyers, Building the Dual Earner/Dual Career Society: Policy Developments in Europe, 2001, in https://aei.pitt.edu/, si riferisce a un assetto sociale ed economico in cui uomini e donne si impegnano simmetricamente sia nel lavoro retribuito nel mercato del lavoro, sia nel lavoro domestico non retribuito. La capacità di equilibrio delle responsabilità familiari e di mercato, e di ripartire equamente la cura, dovrebbe essere sorretto e facilitato dalle politiche pubbliche.
([12]) V. Filì, La sostenibilità del sistema pensionistico italiano tra equilibri ed equilibrismi, in MGL, 2018, 1, 25-37; O. Bonardi, Non è un paese per vecchie. La riforma delle pensioni e i suoi effetti di genere, in RDSS 2012, 3, 513-553.
([13]) F. Marinelli, Gender gap e mercato del lavoro alla luce della pandemia: il “punctum dolens è la ripartizione tra i generi dei compiti di cura genitoriale, in RIDL, 2021, 1, pt. 1, 65-82.
([14]) P. Cerullo, Recovery Plan, PNRR e Gender Gap, in LDE, 1/2021.