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Con gli occhi delle donne (con disabilità) nel mondo del lavoro

Diversity & Inclusion - Massimiliano De Falco - 10 Marzo 2022

Le donne con disabilità, specie nel mercato del lavoro, sono invisibili, nel senso che né le politiche di genere influenzano la loro condizione, né le politiche sulla disabilità sembrano tener conto del genere. Una sfida nella sfida (purtroppo, ancora) da vincere, per realizzare l’inclusione e per invertire quel circolo vizioso che sta risucchiando l’impiego femminile, in generale, e l’impiego delle donne con disabilità, in particolare, verso una profonda spirale negativa.

Acquisito che, da un lato, la differenza di genere può trasformarsi in disuguaglianza, quando le donne non hanno accesso alle risorse in egual modo rispetto agli uomini e che, dall’altro lato, la disabilità può trasformarsi in disuguaglianza, quando le persone con disabilità non hanno accesso alle risorse in egual modo rispetto alle altre (uomini o donne che siano), per le donne con disabilità, la combinazione di queste due possibili – ma, come noto, assai frequenti – dinamiche di esclusione può provocare un effetto moltiplicatore, che le espone al rischio di essere discriminate, non solo rispetto alle donne senza disabilità, ma anche rispetto agli uomini con disabilità.

Tale considerazione richiama il fenomeno – ancora scarsamente indagato, tanto in letteratura, quanto nella prassi – delle cd. discriminazioni intersezionali, per cui la concomitante appartenenza a due (o più) gruppi sociali sfavoriti moltiplica il rischio che una persona sia vittima di eventi lesivi della propria dignità. Si tratta, dunque, di quelle discriminazioni in cui le caratteristiche della persona si aggiungono l’una all’altra nella stessa situazione, originando nuove forme di disparità di trattamento e opportunità, frutto della loro combinazione, laddove non si darebbe luogo ad alcuna disuguaglianza se le caratteristiche fossero prese in considerazione singolarmente. Ne consegue che le discriminazioni intersezionali colpiscono specificamente (ed esclusivamente) le donne con disabilità, non in quanto donne, non in quanto persone con disabilità, ma proprio in quanto donne con disabilità.

Questa preoccupazione traspare nitidamente, quantomeno sulla carta, anche nella Convenzione delle Nazioni Unite «sui diritti delle persone con disabilità» e, in particolare, nell’art. 6, rubricato appunto «Donne con disabilità». Tuttavia, oltre a sottolinearne la condizione di peculiare svantaggio, l’ONU si limita a delegare, ai singoli Stati, l’adozione di misure di contrasto alle «discriminazioni multiple» (rectius, intersezionali) a tutela delle donne (e delle bambine) con disabilità, che, ciononostante, come detto, restano invisibili, specie agli occhi del mercato del lavoro, ambiente nel quale dovrebbe massimizzarsi la dignità della persona.

La questione è assai rilevante, specie di fronte ai “numeri della disabilità”. Preliminare a ogni ricognizione quantitativa, è aver ben chiaro che tale caratteristica non può (e non deve) essere interpretata quale sinonimo di “handicap psico-fisico”, ma occorre tener conto dell’influenza dell’ambiente nel quale la persona è inserita. Sicché, la disabilità non possiede carattere medico, bensì di tipo relazionale, e considera cioè il rapporto tra le menomazioni della persona e le barriere di diversa natura «che ne ostacolano la piena ed effettiva partecipazione, su base di uguaglianza con gli altri» (cfr. art. 1, c. 2, Conv. ONU).

Volgendo l’attenzione ai dati, dalle più recenti rilevazioni statistiche, emerge, anzitutto, che le persone con disabilità, in Italia, rappresentano una quota pari al 5,2% della popolazione residente: a oggi, infatti, sono oltre 3 milioni le persone con limitazioni funzionali gravi, cui si aggiungano oltre 9 milioni di persone con limitazioni funzionali lievi (vale a dire persone che presentano livelli di difficoltà mediamente inferiori al livello massimo, in almeno una delle funzioni motorie, sensoriali o essenziali della vita quotidiana) e di persone che, pur non avendo limitazioni funzionali, presentano malattie croniche gravi. Così considerato, si tratta di un universo di quasi 13 milioni di persone (pari al 21,2% della popolazione), all’interno del quale la quota più significativa, soprattutto nei casi di maggior gravità, è rappresentata dalle donne con più di 65 anni[1]. In realtà, siffatta risultanza è alquanto intuitiva, figurando la logica conseguenza del fatto che, per un verso, nel nostro Paese, la speranza di vita è in costante aumento, e che, per l’altro, le donne sopravvivono mediamente più a lungo degli uomini. Sul punto, duole osservare come, in questo scenario, sempre più spesso, siano le stesse donne a essere gravate degli oneri di cura e assistenza (altrui, ma, potenzialmente, anche proprie).

A restituire un quadro ancor più sconsolante, sono poi le analisi sulle condizioni occupazionali delle persone (e, in particolare, delle donne) con disabilità, che testimoniano come, nonostante l’apparato di obblighi, incentivi e sanzioni previsto dall’ordinamento nazionale[2], l’inclusione lavorativa resti un traguardo lontano dall’essere raggiunto. Attualmente, è occupato solo il 35,8% di persone con limitazioni funzionali comunque abili al lavoro (a fronte di una quota pari al 57,8% di persone senza limitazioni); tra queste, si evince altresì un crescente ricorso ai contratti a tempo determinato, specie tra gli under 40, e una forte incidenza del part-time (invero, strumento di flessibilità oraria, in grado di rispondere alle esigenze di cura delle persone con disabilità, ma non sempre così desiderato). Della parte residua (ossia con riferimento al 64,2% di persone con disabilità non occupate), solamente il 20,7% è in cerca di un impiego, mentre il restante 43,5% risulta inattivo (tra le persone senza limitazioni, la percentuale di inattivi è pari a “solo” il 27,5%).

Il disagio occupazionale sofferto dalle persone con disabilità comporta una ridondanza che si abbatte prepotentemente non solo sulla loro condizione economica, ma anche sulla loro sfera familiare, già gravata dai compiti di cura, e a essere penalizzata in misura maggiore è, ancora una volta, la componente femminile: solo il 29,4% delle donne con disabilità(contro il 43,3% degli uomini con disabilità) lavora, solo il 16,6% di queste (contro il 25,1%) cerca un impiego e addirittura il 53,9% (contro il 31,6%) si colloca nell’inattività.

A tanto si aggiunga che, all’interno delle imprese (legittimamente dirette al conseguimento del profitto), le persone con disabilità sono sovente considerate “lavoratrici e lavoratori di serie B”, in ragione di presunte ridotte performance, e, pertanto, confinate in mansioni di secondaria importanza rispetto al core business aziendale: se il 36,2% delle occupate e degli occupati con disabilità ricopre un ruolo impiegatizio, soltanto il 19,8% si colloca ai vertici della piramide, svolgendo attività intellettuali e dirigenziali (5,3%) o professioni tecniche a elevata specializzazione (14,5%). L’articolazione illustrata risulta omogenea su tutto il territorio nazionale, sia per classi d’età, sia per livello di disabilità, laddove, solo in presenza di situazioni più gravi, si riscontra una maggiore concentrazione nei profili esecutivi del lavoro d’ufficio. È, invece, con riferimento al genere che il quadro risulta maggiormente differenziato: tra le donne con disabilità, si osserva una rilevante incidenza di figure tecniche specializzate (15,2% contro il 13,9% degli uomini con disabilità) e di dirigenti e professioniste (6,7% contro il 4,4%), mentre, tra gli uomini con disabilità, risulta più elevata la quota di professioni tecniche nell’industria (23,6% contro il 10,9% di donne con disabilità) ovvero di professioni non qualificate (16,7% contro 10,3%).

In realtà, queste risultanze non sono altro che la cartina di tornasole dei livelli medi di istruzione, che rappresenta un volano decisivo per l’accesso a un’occupazione qualificata: se poco più del 30% delle persone iscritte alle liste di collocamento possiede un titolo di istruzione superiore alla licenza di scuola media (il 6,3% ha un titolo universitario e il 24,6% un diploma di maturità), la maggior parte di queste sono donne. Il dato è confermato dalle analisi sul pubblico impiego, dove l’accesso avviene per concorso e le procedure selettive assicurano come il genere sia irrilevante ai fini dell’assunzione: la metà dei dipendenti pubblici con disabilità, infatti, sono donne (49,9%), a fronte della percentuale assai più modesta del settore privato (38,5%).

Se ne ricava che il mercato del lavoro è assai selettivo nei confronti delle persone con disabilità e, a quanto pare, è ancor più selettivo per le donne con disabilità, con tutta una serie di ambiti che sono loro preclusi. Del pari, le evidenze descritte restituiscono un’immagine che esaspera la occupazione femminile, come se l’analisi delle condizioni delle donne con disabilità rappresentasse una lente di ingrandimento per osservare le disuguaglianze di genere.

In mancanza di dati aggregati, si rileva, infine, come le considerazioni esposte non possano essere ulteriormente approfondite: se, nel contesto della pandemia, le misure di contenimento del contagio e il venir meno delle (poche) istituzioni che liberano il tempo delle donne dalla cura hanno inasprito quel circolo vizioso che limita l’impiego femminile e la realizzazione delle donne in tutti gli ambiti della vita, sarebbe interessante comprendere quale sia la reale condizione delle donne con disabilità, specie con riguardo alla conciliazione tra tempi di vita e di lavoro.

Una lettura intersezionale servirebbe, allora, per individuare quelle discriminazioni che altrimenti resterebbero invisibili agli occhi di molti, per determinare interventi mirati che tengano conto della specifica condizione di donne con disabilità e per indirizzare le politiche sociali e del mercato del lavoro verso l’inclusione di quelle donne che versano in una condizione di oggettiva e incolpevole fragilità.

[1] Complici le patologie croniche che colpiscono le persone soprattutto in età senile, gli anziani (over 65) con disabilità sono quasi un milione e mezzo (il 22% in quella fascia d’età) e due terzi di questi sono donne. Inoltre, solamente il 17,5% delle lavoratrici e dei lavoratori con disabilità ha meno di quaranta anni, mentre il 68% ha superato i cinquanta.

[2] L’art. 3, c. 1, della l. n. 68/1999 prevede, a carico dei datori di lavoro, l’obbligo di assumere un certo numero di persone con disabilità proporzionale alle dimensioni occupazionali dell’impresa, nella seguente misura: «a) sette per cento dei lavoratori occupati, se occupano più di 50 dipendenti; b) due lavoratori, se occupano da 36 a 50 dipendenti; c) un lavoratore, se occupano da 15 a 35 dipendenti». Qualora il datore non adempia all’obbligo assuntivo, l’art. 15, L. n. 68/1999 statuisce l’irrogazione di sanzioni amministrative per ogni giornata lavorativa di mancato impiego della persona con disabilità, fissandone l’ammontare a cinque volte l’esenzione contributiva prevista dall’art. 5. Recentemente, il Ministro del Lavoro ha decretato l’adeguamento dell’importo del contributo esonerativo a 39,21 euro, inasprendo, di riflesso, l’apparato sanzionatorio: in tal modo, la sanzione diviene di 196,05 euro giornalieri per ogni mancata assunzione, e, se moltiplicata per 260 giornate lavorative, raggiunge quota 50.973,00 euro annui.

 

 

*Testo della relazione tenuta nel corso del Seminario “Quanto siamo EQUAL?”, svoltosi presso il Dipartimento di scienze giuridiche dell’Università di Udine, l’8 marzo 2022, in occasione del secondo anniversario della messa on line del portale.

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