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Affari loro: le conseguenze della legge sulle unioni civili

Attualità - Yàdad De Guerre - 14 Dicembre 2020

La scorsa estate, alcuni media raccontarono di una becera polemica sulla presenza di conduttori omosessuali (o presuntamente tali) alla guida di alcuni programmi di Rai Uno. Con la strategia del virgolettato, molti giornali riportarono le parole omofobe usate dagli accusatori persino nei titoli, aumentando di fatto il grado di tossicità del discorso pubblico. Si parlò, cioè, di «omosessualizzazione», di «gayzzazione», di «lobby gay». Intervenne anche il direttore di Rai Uno, Stefano Coletta, il quale preferì – anziché denunciare l’omofobia – limitarsi a una difesa della reputazione della rete, sporcata evidentemente dall’accostamento con l’omosessualità. Disse Coletta, en passant: «[T]utto vorrei tranne che leggere gay uno, rai uno-gay uno». In questo contesto, vale la pena rimarcare quanto l’eterosessualità sia sempre taciuta e resa implicita in virtù del suo essere norma automatica, condivisa e orientativa. Una norma così imponente che, nel momento storico in cui è più facilmente rivelabile, necessita di essere spacciata come la quintessenza della fragilità. Per vederla vacillare basterebbero piccolezze, numeri ridicoli: due o tre tweet sull’orientamento sessuale di una manciata di presentatori ed ecco gli unicorni volare in cielo, quelle horreur.

Eppure, l’eterosessualità è parte integrante, ancora oggi in Italia, di un più ampio sistema che dall’obbligo riproduttivo giunge alla bianchezza, all’immacolata cultura italiana come monolite fondato sul sangue, alla religione cattolica. È illuminante, da questo punto di vista, la recente campagna della stessa Rai sui «valori del servizio pubblico» in cui l’azienda radio-televisiva viene definita «per tutti» attraverso una rielaborazione dell’acronimo. Secondo lo spot della campagna, infatti, RAI significherebbe anche «Rispettiamo Altre Idee», dove le «altre» idee vengono rappresentate da persone che danzano a Shanghai; il pugno chiuso di una persona nera; lanterne cinesi; musulmani che pregano. Oppure significherebbe «Reagiamo Alle Intolleranze», indicate didascalicamente e ambiguamente da un ragazzo bianco al Pride; due donne che si baciano; una persona che manifesta con un cartello su cui si legge, in inglese, «can’t breathe»; due mani su cui è scritto, sempre in inglese, «stop racism». La Rai «per tutti», al maschile, è fatta da un noi implicito a partire dal quale si stabiliscono alterità e oppressioni; un noi il cui potere inscalfibile agita la bandiera del pluralismo e della par condicio per tenere alto il controllo, sventolando sempre verso destra.

Da qualche giorno, Endemol Shine Italy ha aperto i casting per Affari tuoi – W gli sposi, programma prodotto per Rai Uno che andrà in onda il sabato sera a partire dalla fine di dicembre. Si tratta di una versione speciale del celebre gioco chiuso nel marzo del 2017 (con una proposta di matrimonio avanzata a una concorrente dall’ormai marito) e, poi, sostituito dal trionfo biologico dell’Italia bianca fondata sulla riproduzione eterosessuale, ossia il game show I soliti ignoti condotto da Amadeus. Alla guida di Affari tuoi – W gli sposi ci sarà Carlo Conti, che tornerà sugli schermi dopo un mese dalla fine dell’edizione 2020 di Tale e Quale Show, trasmissione più volte accusata per il ricorso alla blackface ma sorda alle critiche. La speciale versione del gioco dei pacchi rispolvera un ciclo di puntate andate in onda una decina di anni fa sotto il titolo Affari tuoi – Speciale per due e dà la possibilità a una coppia di vincere una cifra massima di trecentomila euro. Si legge nei Criteri di ricerca e selezione delle coppie di concorrenti, redatti interamente al maschile, che possono partecipare al programma «a) Tutti coloro i quali siano maggiorenni al momento della presentazione della candidatura e abbiano effettuato la promessa di matrimonio presso il Comune di residenza; b) […] coloro i quali, pur non avendo ancora effettuato la promessa di matrimonio, siano muniti di (i) Certificato parrocchiale che attesti l’impegno a frequentare e/o la frequentazione al corso prematrimoniale; e/o di (ii) Certificato parrocchiale comprovante la prenotazione della Chiesa; c) […] Coppie stabili, che vivano in regime di comprovata convivenza, e che sottoscrivano una autocertificazione attestante la loro concreta volontà di contrarre matrimonio».

In sostanza, possono partecipare al gioco del sabato sera di Rai Uno soltanto due persone di sesso diverso non ancora convolate a nozze ma ufficialmente pronte a sposarsi. È indicativo che, nonostante si riprenda, senza grande originalità e in un momento storico critico, la stessa versione di un game show andata in onda negli anni 2009 e 2010, la legge n. 76/2016 sulle unioni civili e le convivenze non abbia costituito un ostacolo o chiesto un ripensamento del programma, almeno nel senso dell’inclusione. Anzi, è illuminante proprio il cambio del titolo a fronte di un’idea apparentemente uguale. «Speciale per due», infatti, si presterebbe a fraintendimenti oggi più di ieri, considerato il mutato scenario giuridico delle relazioni di coppia. Al contrario, «W gli sposi» è intoccabile, perfetto per riprodurre facilmente la gerarchia sociale. A quasi cinque anni dall’entrata in vigore della «legge di civiltà» sulle unioni civili – cioè di quel baratto tra il principio di eguaglianza e l’astratto cambio di mentalità e di costumi con la logica dei piccoli passi – si rende evidente la violenta facilità con cui, in Italia, la definizione di famiglia resta, e deve restare, basata sul matrimonio tra persone di sesso diverso. Grazie alla Rai, il grido generalmente evocativo di momenti felici e festeggiamenti, «Viva gli sposi!», diventa l’ennesima arma di un sistema incrollabile di dominio, quasi fosse stata perfezionata da agguerriti militanti pro-family. Considerato il quadro giuridico italiano che, a oggi, prevede tre modelli normativi per i rapporti delle coppie monogamiche (matrimonio; unioni civili; convivenze) e tenuto conto del non più ammissibile occultamento di realtà familiari diverse dalla coppia eterosessuale sposata, il servizio pubblico dovrebbe ripensarsi per includere e rappresentare chiunque, trasformando un «W gli sposi» in «Speciale per due». In realtà, invece, accade l’esatto contrario.

Messe da parte le critiche all’istituto matrimoniale in sé, alla televisione italiana e al programma Affari tuoi nello specifico – che non sono l’oggetto principale di questa riflessione – è evidente che l’assegnazione di un premio sulla base dell’espressa volontà di contrarre matrimonio, quindi sulla base della diversità e complementarità di sesso di una coppia, risulta una scelta deliberata e tutt’affatto innocente. Visto il momento critico che attraversiamo, Affari tuoi – W gli sposi suona come una forma di incentivo alla famiglia c.d. «tradizionale» a discapito di tutte le altre, quasi una linea politica di indirizzo programmatico. Come se non ci fosse fine al peggio, in alternativa alle promesse di matrimonio (non alle pubblicazioni, eh, proprio alle promesse!), basterebbero i certificati parrocchiali perché, si sa, la propaganda familista si situa storicamente nell’alveo dell’area confessionale cattolica. Secondo le regole del gioco, dunque, potrebbero diventare concorrenti due futuri sposi interessati soltanto a ottenere il riconoscimento cattolico e non anche quello statale, ma non potrebbero due persone che hanno scelto esclusivamente altri riti religiosi. Ancora una volta, i «valori del servizio pubblico» sembrano definirsi grazie alla morale cattolica agita come discrimine.

Per concludere, mi sembra chiara, una volta di più, la generale incapacità di capire quali conseguenze e quali problemi siano sorti in Italia dopo l’entrata in vigore della legge sulle unioni civili, ossia quella legge che definisce le coppie formate da persone dello stesso sesso come «specifica» formazione sociale. E mi sembra che Affari tuoi – W gli sposi sia la perfetta descrizione della cristallizzazione, nell’immaginario collettivo, del corretto discrimine tra le coppie che chiedono tutele. Duole ricordarlo, ma è ormai diffusa l’idea secondo cui l’articolo 29 della Costituzione chiuderebbe le porte al matrimonio egualitario, come dicono – pur con certa reticenza – esponenti di varie associazioni e del mondo politico, persino di sinistra o centro-sinistra. Duole ammetterlo, ma in Italia l’equiparazione tra unioni civili e matrimonio rimane a-problematica nello stesso pensiero queer o nello stesso attivismo LGBTIQ+ e così, puntualmente, vengono occultate differenze e specificità generatrici di discriminazione istituzionale. Duole dirlo, ma dopo quasi cinque anni dalle unioni civili resiste intatta la retorica del piccolo passo di fondamentale importanza che avrebbe cambiato i costumi e la società, senza che mai si riesca a spiegare in quale direzione vada quel passo. Insomma: come mai, in un programma del sabato sera di Rai Uno, la televisione pubblica può permettersi di gridare «W gli sposi» senza bisogno di esplicitare e, al contempo, senza nascondere il fatto che vada in onda il game show del Family Day?

 

 

* L’autore è il curatore del blog Playing the Gender Card. Nel 2020 ha fondato Sovversioni come spazio per supportare e rigenerare le lotte LGBTIQ+ in ottica intersezionale. Segnaliamo l’articolo Francesco: il papa, le unioni civili e i contesti.

 

 

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