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Parità di genere: proposte per un’impresa Equal

Diversity & Inclusion - Daniele Gasparini - 6 Aprile 2022

La foto che ha aperto il convegno “quanto siamo Equal” dell’8 marzo 2022 [qui alcune informazioni sulla sua origine] ha fatto indignare non solo quanti sono attenti al tema della parità di genere, ma anche quanti fanno del valore della diversità un ingrediente essenziale dell’innovazione.

Una foto però fissa un istante, stimola emozioni e alimenta pensieri. Gestita l’emozione e organizzati i pensieri, la mia prima riflessione è andata alla storia che precede quella foto: sì perché una foto, il soggetto della foto, hanno sempre una storia che li precede di cui sono frutto, risultato, significato.

Allora partiamo da quell’istantanea per prefigurare un futuro diverso, più inclusivo, più equal.

Quanto la disparità di genere sia ancora una criticità in ambito sociale e organizzativo ce lo dicono i dati:

Fra tutti spiccano quei 135,6 anni che il Global Gender Gap Report 2021 del World Economic Forum indica come necessari per colmare il gender gap a livello mondiale.

Ora, considerata la vaghezza con cui ognuno di noi guarderà agli impegni personali tra circa 135 anni, magari un pensiero, piccolo o grande che sia, ci può portare a ragionare su cosa fare perché già da “domani” si possa agire per ridurre non solo i gap di genere, ma anche quel lasso di tempo, umanamente inaccettabile.

A questo punto abbiamo varie possibilità: indignarci, indignarci e capire, indignarci capire e agire. Su quest’ultima opzione si concentra il mio contributo che attraverso un percorso fatto di parole chiave e di progettualità vuole condurci in una proposta operativa per rendere le organizzazioni non solo il luogo dove si realizza la parità di genere, ma anche il luogo dove si crea la cultura per la parità di genere.

Tre piani programmatici a livello internazionale con l’Agenda 2030 delle Nazioni Unite per lo sviluppo sostenibile-Obiettivo 5, a livello europeo con la Strategia per la Parità di Genere 2020-2025 e a livello nazionale con il PNRR definiscono le priorità e la road map per la realizzazione delle iniziative volte a ridurre le disuguaglianze e quindi agire più o meno direttamente per ridurre la parità di genere.

Una road map costellata di obiettivi e azioni, in grado di delineare priorità di intervento, sia al fine di eliminare la discriminazione e garantire la parità di genere, sia per creare quella necessaria cultura dell’inclusione essenziale per sostenere un cambiamento necessario e non più derogabile in termini di gender gap.

In questa road map ho individuato cinque obiettivi rispetto ai quali ritengo che le organizzazioni possano fare molto poiché è anche all’interno delle stesse che il gender gap prende forma e proprio da esse può prendere avvio il necessario cambiamento per ridurlo e, auspico, eliminarlo.

Gli obiettivi su cui le organizzazioni possono impegnarsi sono:

  • Diffusione della cultura dell’inclusione
  • Riduzione dei gap
  • Eliminazione delle discriminazioni
  • Riequilibrio delle azioni di cura
  • Stimolo all’autonomia

Per realizzare questi obiettivi ho ipotizzato in percorso che consideri da un lato il contesto organizzativo e socio-economico e dall’altro una serie di azioni concrete per il raggiungimento degli obiettivi stessi.

Il percorso si snoderà quindi attraverso 5+1 pilastri essenziali nella realizzazione degli obiettivi.

Il primo pilastro è la complessità. Che i nostri sistemi di vita sia interconnessi ce ne siamo accorti profondamente durante la pandemia dove l’ovvio è diventato evidente e dove l’interazione tra i diversi sistemi (lavorativo, sociale, famigliare) ci ha portato a continui aggiustamenti e correzioni delle nostre azioni e delle nostre abitudini. Il lavoro sempre più digitalizzato e ibrido, una quotidianità sempre più frammentata in molteplici e interconnesse attività in contesti differenti.

Le persone hanno dimostrato capacità di adattamento, non senza qualche ripercussione a livello psicologico e sociale, ma soprattutto di resilienza, così come le organizzazioni. In tale contesto, è stato possibile mettere in gioco abilità (anche e soprattutto di problem solving) e mettere in evidenza le potenzialità (anche finora inespresse) di ciascuno. Penso in particolare a quelle lavoratrici che hanno dovuto ancor più conciliare l’attività lavorativa (nella sua estrema variabilità organizzativa) con la complessità delle attività di cura dei propri figli e famigliari (rese ancor più difficoltose dalla pandemia).

E’ emerso quindi, ancora più chiaramente, come le persone non siamo più “solo” competenze da abbinare a una mansione e da misurare in performance, ma una molteplicità di potenzialità da mettere nelle condizioni di esprimersi in contesti (fisici, sociali e organizzativi) abilitanti. Per le organizzazioni, questo vuol dire guidare e agevolare l’emersione delle competenze, la loro applicazione attraverso la connessione e la relazione tra le persone intese nella loro complessità.

La sfida per le imprese diviene quindi quella di creare le condizioni perché le relazioni prendano forma attraverso incontri (riunioni, teamwork, ecc…) in luoghi fisicamente accessibili, ma anche in tempi accessibili (penso alla necessità di considerare gli orari di lavoro dei collaboratori nel fissare gli incontri). Incontri sempre più interdisciplinari, dove all’interno ci siano le persone che di quelle decisioni faranno la loro quotidianità lavorativa e di vita (penso in questo caso ai team chiamati a proporre e realizzare progetti di diversity&inclusion composti da persone che rappresentano la molteplicità delle diversità aziendali, così come i team per i progetti di welfare aziendale composti dai portatori di interesse per le iniziative di welfare)

L’efficacia dei sistemi complessi, sta anche nella loro capacità di adattarsi costantemente alle sollecitazioni interne ed esterne, per riadattarsi e adottare quindi la miglior “configurazione” in risposta al contesto che evolve. Adottare quindi strategie di feedback efficaci, continui, mirati rispetto agli obiettivi garantendo a tutti l’accesso alle opportunità di crescita.

Il secondo pilastro è la capacità, un concetto fortemente connesso con quello di “complessità” poiché è la risultante dell’interazione tra le opportunità del contesto e le abilità che le persone possiedono ed esprimo anche solo in potenza. L’organizzazione, quindi deve essere in grado di creare situazioni di equità che permettano alle persone (tutte) di esprimersi, di apprendere, di accedere ai servizi e alle occasioni di realizzazione di sé all’interno del percorso professionale e attraverso questo realizzare i propri progetti di vita. Un approccio alle capacità (capability approach) che esorta le persone alla realizzazione di sé, di quello che si desidera essere per il raggiungimento dello stato di benessere. (Mario Biggeri, Nicolò Bellanca, Dalla relazione di cura alla relazione di prossimità. L’approccio delle capability alle persone con disabilità, Napoli, Liguori Editore, 2010)

Per fare questo le aziende hanno strumenti fondamentali. Penso per esempio alle fasi di onboarding, al processo cioè di inserimento di nuovi collaboratori in azienda.

In questa fase, l’azienda ha l’occasione di raccontare di sé, dei propri valori, della propria storia e obiettivi, degli strumenti e delle policy nonché delle aspettative verso la collaboratrice. Ha l’occasione di trasferire tutte quelle informazioni anche di ordine pratico in grado di permettere una rapida autonomia nella gestione del quotidiano e allo stesso tempo di approfondire la conoscenza, le peculiarità, i bisogni e i desideri e le aspettative della collaboratrice per una sua piena partecipazione alla vita organizzativa.

Tra le altre progettualità importanti finalizzate a facilitare l’inclusione e la parità di genere in azienda abbiamo i progetti che si concentrano sul rientro dalla lunga assenza: penso, per esempio, al rientro dalla maternità. Un passaggio essenziale e delicato, quello del rientro in un contesto organizzativo, specialmente ora che la complessità lo rende sempre meno prevedibile. Il rientro dalla maternità e, dove programmabile, anche l’approssimarsi all’assenza, sono fasi importanti sia per la persona che per l’organizzazione e quindi devono essere progettate, gestite, valorizzate. Nella fase di rientro l’azienda deve preoccuparsi non solo di mettere la collaboratrice nelle migliori condizioni per essere efficacemente operativa, ma chiedersi quali siano gli elementi di cambiamento nella collaboratrice stessa (competenze, aspettative, abilità) e da qui dare continuità al percorso professionale che comprenda un nuovo modo di essere e stare nella relazione organizzativa.

Altre progettualità importanti sono quelle che mettono in connessione le persone attraverso i loro saperi e le loro competenze: penso ai progetti di mentoring e reverse mentoring attraverso i quali una persona esperta trasferisce competenze e conoscenza a una persona meno esperta su specifiche tematiche. Nel primo caso (mentoring) la persona esperta sarà anche una persona con maggiore anzianità organizzativa, mentre nel caso de reverse mentoring l’anzianità organizzativa dell’esperto sarà minore (es.: i neo assunti). Anche in queste situazioni, la scelta accurata del (reverse)mentor permetterà di abbattere stereotipi e pregiudizi anche di genere permettendo alle donne di inserirsi in un contesto, quello dell’apprendimento continuo, strategico come quello delle learning organization.

Il terzo pilastro è la cultura: una parola che racchiude gli indicatori che ci aiutano a capire come un’organizzazione percepisce, valuta e affronta l’ambiente. Analizzare l’organizzazione in una logica di genere vuol quindi dire non solo comprenderla, ma operare affinché gli stereotipi e i bias, che per loro natura permeano l’organizzazione e i processi, non siano tali da attuare discriminazione.

A tal fine le aziende hanno ulteriori strumenti.

Penso alla Formazione sviluppando percorsi formativi sui temi dell’inclusione, del diversity management, ma soprattutto sulla capacità di riconoscere e gestire gli stereotipi che come sappiamo, sono resistenti al cambiamento.

E poi ancora specifiche Policy che, integrandosi con il proprio codice etico, di comportamento e norma 231 coinvolga tutti gli stakeholder (amministratori, dipendenti, fornitori, ecc…) nel delineare le azioni fondamentali per creare un ambiente inclusivo, un ambiente che realizzi le politiche di genere, anche attraverso l’indicazione di quei comportamenti e quel lessico necessari a creare una cultura della non discriminazione.

Penso inoltre alla necessità di una Leadership forte, inclusiva, agita dal management, dai responsabili, da ciascuno proprio nella logica di realizzare e diffondere quella policy e quegli obiettivi che l’azienda si è data in termini di inclusione, di parità di genere e di una cultura di piena valorizzazione della persona.

Il quarto e (ovvio) pilastro è l’Organizzazione.

Oramai è chiaro che il processo di inclusione è un processo di change management in cui l’impresa, a piccoli passi diventa più agile e responsiva: si ripensa nella sua struttura, diventando piatta, la gerarchia scompare, i gruppi si costruiscono sui principi delle auto-organizzazioni. È proprio per questo che politiche e processi aziendali in grado di creare autonomia, valorizzazione e impiego delle competenze sono essenziali per la stessa vita dell’impresa: ciascuno con la propria unicità è elemento essenziale, in un contesto che lo sappia valorizzazione e mettere nelle condizioni di agire.

L’adozione quindi di politiche di diversity management diventa fondamentale, in ottica di genere e più in generale di gestione consapevole delle diversità.

Stabilire obiettivi (aziendali e manageriali) in ottica di genere diventa quindi un passaggio essenziale per misurarsi, sapendo individuare i KPI corretti, sapendo leggere i dati e trasformali in informazioni in grado di guidare le azioni come feedback continui, e i dati, in azienda, ci sono.

La recente norma ISO 30415:2021 va proprio in questa direzione: una guida essenziale, precisa e puntuale nell’accompagnare le imprese a realizzare un’organizzazione inclusiva.

L’azienda ha poi la possibilità attraverso i propri piani di welfare di intervenire per colmare il gap che negli anni si è venuto a creare, implementando quei servizi (penso alle attività di cura e di gestione della quotidianità domestica) che ancora gravano come macigni sulla vita e anche sulla carriera delle donne.

Quali siano i vantaggi di tutto questo è oramai evidente e la letteratura e le ricerche ce ne rendono ben conto: dalla maggior capacità innovativa delle imprese che porta con sé una maggiore competitività, all’attrattività d’impresa sia verso l’esterno, sia in termini di retention per i propri collaboratori. E ancora l’aumento della reputation aziendale e l’accesso ai gruppi di lavoratori e lavoratrici che in quella azienda vedono il realizzarsi di valori condivisi. Non ultima, una maggiore motivazione al lavoro per un contesto che mette la parità di genere al centro dei propri valori, una maggiore flessibilità legata all’emersione delle molteplici competenze e un’efficienza che rende conto del migliore impiego delle stesse.

Certamente non ci si può sottrarre alla domanda: “quanto costa tutto questo?”. A parte che tale domanda è mal posta, perché dovremmo parlare di valore più che costo, ma se per empatia dovessimo parlare di costi la riflessione che proporrei è : “quanto ti costa non fare tutto questo?”.

Allora arriviamo al sesto pilastro (ricordate i 5+1 pilastri iniziali) che è il coraggio. Perché se è vero che ciò che ho descritto prima ci appare, forse, realizzabile, una sostanziosa dose di coraggio appare quanto mai essenziale insieme alla nostra motivazione nel creare un mondo più Equal.

Testo della relazione tenuta nel corso del Seminario “Quanto siamo EQUAL?”, svoltosi presso il Dipartimento di scienze giuridiche dell’Università di Udine, l’8 marzo 2022, in occasione del secondo anniversario della messa on line del portale.

 

 

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