Il diversity management: tra cultura e cambiamento organizzativo
Ogni realtà sociale, organizzativa, politica o economica si caratterizza per una serie di aspetti che ne definiscono non solo finalità e azioni, ma anche valori, regole e principi che ne guidano l’evoluzione e permettono ai diversi interlocutori di orientarsi nelle relazioni.
Rifacendoci alla definizione emersa dalla “Conferenza mondiale sulle politiche culturali”, potremmo usare il termine “cultura” per riferirci a questo insieme di caratteristiche. Si tratta, in altri termini, de “l’insieme degli aspetti spirituali, materiali, intellettuali ed emozionali unici nel loro genere che contraddistinguono una società o un gruppo sociale. Essa non comprende solo l’arte e la letteratura, ma anche i modi di vita, i diritti fondamentali degli esseri umani, i sistemi di valori, le tradizioni e le credenze» (da: Conferenza mondiale sulle politiche culturali. Rapporto finale della conferenza internazionale organizzata dall’UNESCO a Città del Messico dal 26 luglio al 6 agosto 1982.)
Similmente E.H. Schein (1985; Organizational culture and leadership) definisce la cultura organizzativa come “l’insieme coerente di assunti fondamentali che un dato gruppo ha inventato, scoperto, sviluppato imparando ad affrontare i suoi problemi di adattamento esterno e di integrazione interna, e che hanno funzionato abbastanza bene da poter essere considerati validi, e perciò tali da poter essere insegnati ai nuovi membri come il modo corretto di percepire, pensare e sentire in relazione a quei problemi” (ibidem, trad. it, 1990, 35).
Perché è importante parlare di cultura organizzativa e di cambiamento, in riferimento al diversity management? Perché la cultura organizzativa ci permette di “leggere” l’organizzazione. In tal modo, possiamo agire quel cambiamento profondo, stabile e concreto di cui il diversity management e la cultura dell’inclusione necessitano.
Schein afferma che la cultura è leggibile attraverso i suoi assunti fondamentali evidenti a diversi livelli di profondità:
- gli artefatti (livello più superficiale), ovvero i prodotti immediatamente osservabili di una data organizzazione: l’architettura e il layout, l’arredamento, la tecnologia ma anche quell’insieme di codici tipici del vivere sociale quali l’abbigliamento, la mimica, i rituali;
- i valori espliciti (livello più profondo), costituiti dai discorsi manifesti e accettati, creati e fatti circolare attraverso la leadership, finalizzati a rafforzare il senso di appartenenza e solidarietà e quindi di coesione interna oltre a legittimare le scelte e rafforzare il consenso.
Vi è poi un terzo livello ancora più profondo per conoscere la cultura organizzativa e riguarda gli
- assunti di base, quelli impliciti, agiti attraverso le azioni; tra questi il rapporto con la natura, la percezione del tempo, le attività umane, le relazioni tra le persone e così via…
Questi tre livelli attraversano la quotidianità di ogni singolo individuo e ogni gruppo sociale all’interno dell’organizzazione stessa. Essi ci permettono di ricavare alcuni strumenti di osservazione della cultura organizzativa, utili a focalizzare l’attenzione sul tema dell’inclusione e quindi del diversity management. Qui di seguito, ho cercato di individuare alcune domande che a mio avviso possono utilmente fungere da guida in un percorso di analisi dei diversi livelli della cultura organizzativa.
A livello di artefatti chiediamoci:
- l’architettura dell’organizzazione permette l’accesso fisico e partecipativo alla vita aziendale o mantiene barriere fisiche e/o mentali?
- L’abbigliamento delle persone segue le libere preferenze o tende a manifestare l’appartenenza?
- Quali sono i rituali che caratterizzano la vita aziendale (celebrazioni, eventi, ecc…)
A livello di valori espliciti potremmo chiederci:
- Il gergo utilizzato è discriminatorio o rafforza pregiudizi e stereotipi?
- L’informazione è diffusa e accessibile in maniera equa?
- La leadership agita è ascrivibile a processi di inclusione o categorizza e segmenta fino a escludere la partecipazione alla vita aziendale?
E in ultima analisi, a livello di assunti di base:
- Quali sono le motivazioni che guidano le azioni umane?
- Qual è il rapporto dell’azienda con il “fattore tempo”: ciclico, lineare, veloce, irrecuperabile…
- Qual è la convinzione dell’azienda rispetto al progresso e all’innovazione?
- Qual è il valore che viene assegnato al concetto di “diverso”?
Queste sono alcune delle domande possibili per la conoscenza della cultura organizzativa. Rispetto alla quale non bisogna dimenticare che se da un lato rappresenta l’ossatura dell’organizzazione, dall’altro lato è mutevole nel tempo. Una mutevolezza dovuta sia alla spinta esogena del mercato e degli stakeholder esterni, sia alla spinta endogena che gli stessi membri dell’organizzazione possono imprimere.
È la dinamica che si è osservata nel tempo nelle grandi multinazionali americane: da un lato, il mercato che premiava l’adozione di azioni e percorsi di inclusione e diversity management, e il loro essere attrattive per nuovi collaboratori; dall’altro lato, lo stimolo da parte dei collaboratori ad agire nella direzione dell’inclusività, della parità dei diritti e della non discriminazione.
Sempre Schein ci invita a studiare la cultura organizzativa attraverso:
- I processi di socializzazione dei nuovi membri, ovvero come la cultura organizzativa viene trasmessa, recepita, adattata;
- Le modalità di risposta agli eventi critici, poiché è da tali risposte che si forma il patrimonio dei ricordi che concorrono a formare l’identità collettiva dell’organizzazione e, aggiungo, come tali risposte vengono raccontate, quali sono le caratteristiche dello storytelling aziendale;
- Le devianze dalla cultura organizzativa, quali le contraddistinguono, come vengono gestite, quali sono e le tensioni latenti.
Dinamiche queste ultime che mettono in evidenza l’importanza del gruppo quale contesto di elezione della cultura organizzativa. È in tale contesto, infatti, che essa prende forma, da esso si dirama e in esso si rafforza e/o si scinde per creare una cultura “altra”, in contrapposizione a quella originaria, dando vita così al cambiamento.
La prospettiva di Schein non è certo l’unica all’interno dell’articolato mondo degli studi sulla cultura organizzativa (in tal senso, si veda una dettagliata disamina di Bonazzi G, Come studiare le organizazioni, 2006), ma rappresenta a mio avviso un interessante punto di partenza in relazione al tema del diversity management e al processo di cambiamento che esso rappresenta.
È essenziale ricordare come l’inclusione passi attraverso la possibilità dei membri del gruppo di stare e fare assieme, lavorare su risposte concrete a problemi concreti, inventando e scoprendo soluzioni che diventano oggetto ed esperienza di apprendimento. È proprio in questi processi di composizione di gruppi, di valorizzazione delle singolarità e di connessione, che l’azienda agisce quei criteri di inclusione (o esclusione) che ne sostanziano da un lato la cultura, dall’altro lato costituiscono occasioni fondamentali per agire nella pratica quotidiana i processi di abbattimento delle barriere fisiche, architettoniche, sociali e culturali.
Soprattutto quello organizzativo, come ogni cambiamento, ha necessità per il suo successo di un piano di azioni, di una visione di medio-lungo termine, di una progettazione che permetta giorno dopo giorno di guidare e indicare le azioni capaci di sostenerlo e rafforzarlo.
Se vogliamo quindi agire il cambiamento in ambito organizzativo e con esso il cambiamento culturale di cui il diversity management è al tempo stesso origine e risultato, è fondamentale che tale processo coinvolga tutto il personale aziendale e che sia pervasivo delle pratiche e dei valori organizzativi, si basi su pratiche e processi che lo sostengono e si espleti attraverso azioni concrete, visibili e partecipate collettivamente.