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Giugno, mese arcobaleno. (Quasi) tutto quello che hai sempre voluto sapere sul Pride (…e non hai mai osato chiedere)

Lingua Diritto Diritti - Elena Pepponi - 19 Giugno 2023

 

Giugno, mese in cui finisce la scuola e inizia l’estate, mese di nuovi inizi e ripartenze faticose, ma anche mese del Pride, cioè la manifestazione in cui la comunità LGBTQIA+ sfila per le strade di molte città italiane chiedendo equità e diritti troppo spesso ancora incerti.

Di pregiudizi e falsi miti sul Pride ne circolano sin troppi: vediamo dunque di fare chiarezza su cosa sia il Pride, quali siano le sue origini e i suoi sviluppi e le parole chiave di questo evento pacifico e colorato.

Tra Stonewall e San Francisco

La notte del 28 giugno 1969 allo Stonewall Inn, noto locale notturno di Greenwich Village, un sobborgo di New York, si verificò un evento epocale. Di norma, il locale era frequentato da numerosi uomini gay, ma anche da diverse persone crossdresser, drag queen e trans*. Regolarmente, le retate della Polizia facevano piazza pulita di tutte le soggettività “scomode”, per le quali passare ogni tanto una notte in cella era ormai routine, con la scusa che stessero violando la legge dello stato di New York che impediva di presentarsi in pubblico con un “unnatural attire” (cioè un aspetto non consono a ciò che la natura prevedeva per quell’individuo).

Ma quella notte fu diverso. Il popolo dello Stonewall Inn decise di reagire all’ennesimo ingiusto blitz degli uomini in divisa: ne scaturì una guerriglia che richiese l’intervento di pattuglie di rinforzo, con le persone queer impegnate a difendersi dagli agenti a colpi di tazzine da caffè, boccali di vetro e scarpe con i tacchi. I cosiddetti moti di Stonewall inaugurarono ufficialmente la stagione della presa di coscienza e delle rivendicazioni delle persone omosessuali e trans*. Per vederle marciare per le strade, però, bisognerà attendere quasi un decennio.

Il 25 giugno 1978, a San Francisco, si tenne una manifestazione chiamata San Francisco Gay Freedom Pride Parade, consistente in una sfilata molto chiassosa e colorata per le strade della città per rivendicare il diritto all’esistenza e alla libera performazione del proprio orientamento sessuale per ogni persona. Durante questo evento, il veterano dello U. S. Army, attivista e artista Gilbert Baker creò la cosiddetta Rainbow Flag cucendo insieme alcune strisce di tessuto colorato e sventolando il vessillo durante la marcia. Baker ideò questa bandiera su esplicita richiesta del primo uomo politico statunitense dichiaratamente omosessuale, Harvey Milk. A partire da quel momento, il sostantivo arcobaleno ha lentamente acquisito una semantica LGBTQIA+ che prima gli era sconosciuta, e sempre a partire da quel momento le persone omosessuali, trans* e queer hanno iniziato a percepirsi come comunità politica, facendo propria la sigla originale a quattro elementi LGBT e usandola come vessillo di lotta.

Quello di SanFra, come dicono gli stessi statunitensi con fare confidenziale, può considerarsi il primo Gay Pride organizzato e politicizzato nella storia, ma siamo ancora a molta distanza dal Pride come evento ecumenico. Tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta, infatti, non è un mistero che le principali rivendicazioni politiche e sociali venissero portate avanti dagli uomini cisgender gay e tendenzialmente bianchi.
Mi viene in mente il titolo di una assai poco edificante canzone di un “artista” ciociaro di nome Bruno Machete: Brutta sì, ma no’ assosì (Va bene brutta, ma non così tanto). A parte la bassezza del pensiero, potremmo tranquillamente parafrasare l’espressione accostandola a quegli anni, e scrivere Gay sì, ma no’ assosì (D’accordo essere gay, ma non esageriamo).
In parole povere, una importante quota di quella che sarà la comunità LGBTQIA+ era ancora quasi del tutto esclusa dalle rivendicazioni, e ancora subiva fortissime pressioni sociali e viveva uno stile di vita accidentato: le persone queer, le persone trans*, le stesse donne cisgender lesbiche avevano pochissimo se non nessuno spazio pubblico di dibattito. Ciò ci viene testimoniato in modo potente anche dal nome: Gay Freedom Pride Parade, sfilata per l’orgoglio e la libertà dei gay. E tutte le altre soggettività? Chi lo sa. L’intersezionalità era ancora una chimera, e la consapevolezza sulle discriminazioni congiunte non era minimamente paragonabile a ciò che oggi abbiamo l’abitudine di considerare normale. Insomma, quello era il momento degli uomini bianchi e gay, e basta.

L’Italia e il Gay Pride

Nel 1980 a Giarre, in Sicilia, due ragazzi omosessuali e innamorati – e per questo soprannominati “i ziti”, cioè “i fidanzatini” – erano stati freddati con un colpo di pistola (storia raccontata anche dal film di Beppe Fiorello Stranizza d’amuri, uscito quest’anno). Sull’onda emotiva di questo delitto efferato, si costituì a Palermo il primo nucleo di quella che sarà poi l’associazione Arcigay: quest’ultima nacque attorno alla figura di (don) Marco Bisceglia, ex sacerdote progressista poi sospeso a divinis, e non serve certo spiegare il perché.

Il 28 giugno 1981, proprio grazie all’attività di questo gruppo, venne celebrata la prima Festa dell’orgoglio omosessuale per le strade di Palermo. Anche in questo caso, il nocciolo duro della neonata associazione e le persone partecipanti alla festa di strada erano molto omogenei tra loro: uomini bianchi cisgender omosessuali, nemmeno a dirlo.

Il primo Gay Pride nazionale ufficiale fu organizzato, però, solo nel 1994 per le strade di Roma, promosso in particolare dalle attiviste Imma Battaglia e Vladimir Luxuria. Faccio notare che, nonostante le due promotrici fossero una donna cisgender lesbica e una donna trans*, la manifestazione si chiamava ancora Gay Pride: forza dell’abitudine (o del patriarcato introiettato? Butto lì la domanda e la lascio sul tavolo).

Nella seconda metà degli anni Novanta, grazie a questo imprinting, diverse città ospitarono la manifestazione con una cadenza annuale (Bologna, Napoli).

Nel 2000, in concomitanza con il Giubileo cattolico indetto da Papa Giovanni Paolo II, Roma fu teatro del World Pride, cioè il Pride mondiale. La scelta della sovrapposizione non fu, naturalmente, casuale: l’idea era precisamente quella di esercitare al massimo la propria visibilità e di far passare l’importante messaggio “Io esisto e ho diritto quanto te a credere in ciò che voglio”.

Dall’orgoglio gay all’orgoglio di tuttə

Per tutto il primo decennio degli anni Duemila e anche oltre, le manifestazioni del Gay Pride in Italia hanno mantenuto un preciso format. La sfilata veniva organizzata ogni anno in una sola città, che dava il proprio patrocinio e metteva a disposizione il suolo pubblico per la parata e gli eventi connessi.

A partire dal 2014, tuttavia, si è sviluppata una nuova sensibilità che, neanche a dirlo, ha avuto anche riflessi linguistici (se seguite questa rubrica, dovreste saperlo: lo zampino della linguistica ci sarà sempre). L’evento ha completamente cambiato format e impostazione, e quindi anche nome.

Innanzitutto, il macroevento in un’unica città italiana si è frammentato, dando vita a tante manifestazioni locali. Tendenzialmente, le città molto vicine cercano di non organizzarlo in contemporanea, per dare la possibilità a chiunque di presenziare a entrambi gli eventi, ma non è detto.

Poi, da Gay Pride è diventato semplicemente Pride, dando vita al cosiddetto movimento “Onda Pride”: l’evento deve, nell’idea di chi lo organizza, entrare a far parte appunto di un’onda, che ricopre l’Italia di manifestazioni arcobaleno continue per tutto il mese di giugno.

Non vi sarà sfuggito che abbiamo perso la prima parte della locuzione Gay Pride, e ci è rimasto soltanto Pride, orgoglio. Orgoglio di essere chi? Chiunque.
Il processo di eliminazione di una parte di una locuzione straniera in linguistica si chiama “decurtazione di un prestito”. In sostanza, noi prendiamo un elemento da un’altra lingua, in questo caso l’inglese, e lo facciamo nostro, ma se dopo un po’ di tempo ci sembra essere troppo lungo, ne eliminiamo una parte: pensate a night club, altro prestito dall’inglese, entrato in italiano nella sua forma a due membri (night + club) ma che per chiunque oggi è soltanto night.
Ecco, abbiamo fatto lo stesso processo con Gay Pride, solo che l’abbiamo fatto in maniera cosciente e mirata, non per usura dell’espressione e per troppa fatica nella pronuncia. Abbiamo consapevolmente rinunciato a Gay per far spazio a tutte le altre soggettività, prima un po’ troppo schiacciate all’angolo – se non deliberatamente escluse.

Adesso possiamo camminare insieme e non abbiamo più scuse: il Pride ci riguarda direttamente, anche se non facciamo parte della comunità.
Perché i diritti anche di una sola persona sono sempre diritti umani.

 

 

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