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Giornata internazionale in commemorazione delle vittime della Shoah

Attualità - Daniela Lafratta - 27 Gennaio 2022

Nel novembre 2005, con la Risoluzione 60/7, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, ha designato il 27 gennaio, anniversario della liberazione del campo di sterminio di Auschwitz, Giornata internazionale in commemorazione delle vittime della Shoah. Il testo della risoluzione condanna “senza riserve” tutte le discriminazioni su base etnica o religiosa ovvero tutti gli atti di intolleranza, incitamento all’odio, molestia o violenza contro persone o popoli, esortando gli Stati membri a sviluppare pratiche e programmi educativi affinché la memoria non vada persa e impedire che il genocidio si ripeta.

Richiamando la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha ribadito che “l’Olocausto, che provocò l’uccisione di un terzo del popolo ebraico e di innumerevoli membri di altre minoranze, sarà per sempre un monito per tutti i popoli sui pericoli causati dall’odio, dal fanatismo, dal razzismo e dal pregiudizio”.

Innanzi all’orrore della Shoah il mondo, unanime, ha urlato “mai più”.

Oggi, dopo 77 anni dal quel 27 gennaio in cui le truppe dell’Armata Rossa, impegnate nella grande offensiva oltre la Vistola in direzione della Germania, liberarono il campo di concentramento di Auschwitz, possiamo affermare che tali aberranti atti non si sono “mai più” verificati? Possiamo davvero affermare che l’Europa ha lottato contro ogni forma di discriminazione, intolleranza e odio verso i popoli? Il controllo delle frontiere e la regolamentazione dei flussi migratori può lecitamente assurgersi a indifferenza e politiche di non tutela della dignità umana?

È questa la riflessione a cui, oggi, vogliamo dedicare il nostro spazio.

La risposta al quesito appare semplice e immediata, la concezione ciclica del tempo ci inchioda a un solo inaccettabile esito: vi sono ancora lager e questa volta con l’approvazione e il sostegno di quella stessa Europa che fiera urlava “mai più”! Lager che nelle più differenziate forme continuano a mietere vittime dell’intolleranza e dell’odio. Nei nostri tempi, appena dietro le nostre spalle, molteplici sono i luoghi in cui migranti, 100 milioni secondo i dati del 2021 di UNHCR, provenienti da scenari di guerra o in fuga da estrema povertà, trovano la prigionia in condizioni disumane e altrettanti sono gli Stati membri che a tali pratiche partecipano attivamente sino ad accettare, coscientemente, di assistere alla continua perdita di vite umane. Il mediterraneo, la rotta balcanica, il deserto, i check point del Niger, la Libia. Ed è qui che chi scrive vuole soffermarsi. Perchè i centri di detenzione libici sono, tutto sommato, campi di concentramento?

Arresti arbitrari di uomini, donne e bambini soli, colpevoli di aver cercato la libertà, detenuti senza un’accusa, ammassati in campi di raccolta dove si sopravvive a pane e acqua. Abusi, torture, violenze sessuali e vendita di schiavi. Mesi di prigionia al buio, privazione del sonno. Nessuna possibilità per l’Unhcr, l’agenzia delle Nazioni Unite, di verificare il rispetto dei diritti umani. Un luogo ove le convenzioni internazionali non hanno alcun valore. Alcun diritto di difesa. Rapporti sessuali in cambio di cibo o della libertà. Gravi violenze e danno di chi oppone resistenza. Gli stranieri che, indipendentemente dall’età, non possiedono un’autorizzazione per stare in Libia vengono arrestati in base a leggi che risalgono all’era di Gheddafi e che criminalizzano e puniscono ogni ingresso, permanenza e uscita non documentata con detenzione, multe e lavori forzati.

Dignità” è una parola senza significato dinanzi a tutto questo.

Su tali pratiche, già nel 2004, quasi venti anni fa, veniva consegnato, alla Commissione di Bruxelles dai delegati della Missione tecnica in Libia sull’immigrazione illegale, un dossier che in settanta pagine di denunce agghiaccianti raccontava le mostruosità dei centri di detenzione sparsi per la Libia. Ma il monito è caduto nel silenzio assordante degli interessi politici e così sono continuati gli accordi con la Turchia e con la Libia, con le logiche di dimenticanza verso le gravi violazioni dei diritti umani e di sottomissione al ricatto di criminali che, ad oggi, dimessi i ruoli di trafficanti, vestono le divise di una neo costituita guardia costiera finanziata dallo Stato italiano. Amnesty International, nel luglio 2021, ha rivelato, nel rapporto intitolato “nessuno verrà a cercarti” nuove prove di orribili violazioni dei diritti umani nei confronti di uomini, donne e bambini intercettati nel mar Mediterraneo e riportati nei centri di detenzione libici. Ciò nonostante, L’Italia e altri Stati membri dell’Unione europea garantiscono assistenza materiale ai guardacoste libici e stanno lavorando alla creazione di un centro di coordinamento marittimo nel porto di Tripoli, prevalentemente finanziato dal Fondo Fiduciario dell’Unione europea per l’Africa.

Il trattamento riservato ai migranti nei centri di detenzione libici, è crudele, inumano e degradante. Le autorità del Paese sono responsabili di questi abusi e secondo il dettato normativo dell’articolo 16 sulla responsabilità degli stati per atti internazionalmente illeciti della Commissione di diritto internazionale delle Nazioni Unite, uno Stato si rende responsabile di violazioni dei diritti umani se assiste o aiuta consapevolmente un altro stato a commettere abusi.

Nella misura in cui l’UE, l’Italia e gli altri governi danno consapevolmente un sostegno fondamentale agli abusi commessi sui detenuti, ne sono complici.

È davvero mai più?

 

 

 

 

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