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Assenze connesse alla disabilità e (mancato) premio di risultato

Diversity & Inclusion - Massimiliano De Falco - 18 Luglio 2022

Se l’assenza dal lavoro per ragioni di cura e assistenza (proprio o altrui) per disabilità incide sulla determinazione del premio di produttività come qualsiasi assenza dal lavoro si tratta di discriminazione diretta [1].

Così, la Corte di Appello di Torino del 13 aprile 2022 ha dichiarato sussistere una disparità di trattamento che interviene per effetto del mancato computo, nel calcolo del premio di risultato (cd. PdR), delle assenze dovute a esigenze di salute dei dipendenti (ovvero dei propri familiari) disabili, al pari dell’effettivo svolgimento della prestazione lavorativa.

Alcuni lavoratori, con separati ricorsi (successivamente riuniti), avevano adito il Tribunale, contestando la natura discriminatoria del comportamento tenuto dalla società datrice e reclamando il riconoscimento, ai fini della quantificazione dello strumento premiale in questione, del diritto alla equiparazione delle assenze per cura e assistenza con la presenza in servizio. Previa declaratoria di nullità o illegittimità, ovvero previo annullamento degli articoli contenuti negli accordi sindacali che disciplinano i criteri di calcolo del PdR (senza tener conto del “fattore disabilità”), i ricorrenti chiedevano la condanna del datore al pagamento delle differenze retributive maturate, in virtù del pregiudizio sofferto.

Il Tribunale, però, respingeva la domanda, ritenendo che i parametri adottati dalle parti collettive per stabilire l’ammontare del PdR fossero oggettivi, in quanto volti a incrementare la produttività aziendale limitando l’assenteismo[2]. A parere del primo giudice, non sussisteva, quindi, una «discriminazione diretta basata sulla disabilità, poiché i ricorrenti che non prestano servizio in giornate coincidenti con la fruizione di permessi ex art. 33, L. n. 104/1992 (per la propria disabilità o per l’assistenza a un familiare disabile) sono considerati al pari dei colleghi assenti per altra causa».

Acquisito che il premio di produttività costituisce un emolumento ancorato (nella parte variabile) all’effettivo svolgimento dell’attività lavorativa, si assumeva che i lavoratori con disabilità e i caregiver venissero trattati allo stesso modo di coloro che subiscono decurtazioni del premio per assenze motivate da altre ragioni, fatte salve le uniche eccezioni previste in relazione al dono del sangue e ai permessi sindacali, ove non continuativi. Il Tribunale, infatti, riteneva ininfluente, ai fini della decisione, la previsione contrattuale tesa a equiparare «alla presenza in servizio le assenze per le donazioni gratuite di sangue ed emocomponenti e per lo svolgimento di attività sindacali», in quanto esse «presenta[no] una dimensione collettiva non riscontrabile nella fruizione dei permessi ex L. n. 104/1992, [tale da giustificarne] una maggiore considerazione a livello pattizio».

Altresì, il Tribunale rilevava che la vicenda non originava neppure una «discriminazione indiretta [basata sulla disabilità, allorché] la disciplina contrattuale penalizza allo stesso modo quasi tutte le assenze e la finalità perseguita è legittima, [non generando] effetti pregiudizievoli per i lavoratori portatori di handicap o per quelli che assistono i propri congiunti». In questi termini, si osservava che l’accordo sindacale differenzia i lavoratori in base alla effettiva presenza in servizio, senza penalizzare i fruitori dei permessi, e che l’eventuale ipotesi di discriminazione indiretta avrebbe dovuto riguardare solamente i dipendenti disabili e non altri soggetti (ossia, i familiari degli stessi), terzi rispetto al rapporto di lavoro con il caregiver.

Contro tale decisione, i lavoratori hanno proposto ricorso dinanzi alla Corte di Appello, che ha censurato la decisione del Tribunale, affermando che l’assunto criterio di calcolo del PdR penalizza le persone che, per sé ovvero per i propri familiari con disabilità, usufruiscono delle agevolazioni di cui all’art. 33, L. n. 104/1992 rispetto agli altri lavoratori, deducendo, per questa via, la natura discriminatoria (diretta) del comportamento della società datrice. Con riferimento, invece, alla discriminazione indiretta, si evidenzia come il datore non abbia assolto all’onere probatorio richiesto, mancando di dimostrare che la disposizione adottata rispondeva a un obiettivo legittimo e che i mezzi impiegati erano appropriati e necessari.

Ad avvalorare la posizione assunta dai giudici del gravame, soccorrono i principi sanciti dalla Dir. 2000/78/CE, il cui ambito di applicazione (ex art. 3) è riferito non solo «alle condizioni di accesso all’occupazione e al lavoro […], a tutti i tipi e livelli di orientamento e formazione professionale […] e all’occupazione e alle condizioni di lavoro» ma anche alla «retribuzione». Infatti, la normativa vieta ogni «forma di discriminazione basata su […] handicap» e, cioè, qualsiasi disparità di trattamento – financo economico – subita sia delle persone con disabilità, sia delle persone (non disabili) che assistono i propri familiari con disabilità.

Sul punto, meritevole di menzione è la sentenza della Corte di Giustizia del 17 luglio 2008, causa C-303/06, laddove si chiarisce che «la Direttiva 2000/78/CE […] si applica non in relazione a una determinata categoria di persone, bensì sulla scorta dei motivi indicati dall’art. 1 [e che] un’interpretazione che ne limiti l’applicazione alle sole persone che siano esse stesse disabili rischierebbe […] di ridurre la tutela che essa dovrebbe garantire». Se ne è ricavato, quindi, che «il fatto che la Direttiva contenga disposizioni volte a tener conto specificamente della condizione dei disabili non permette di concludere che il principio della parità di trattamento in essa sancito debba essere interpretato in senso restrittivo». Pertanto, il trattamento meno favorevole del lavoratore abile, rispetto agli altri in una situazione analoga, per motivi connessi alle condizioni di salute del familiare da questi assistito, integra, a tutti gli effetti, una discriminazione diretta basata sulla disabilità [3].

Invero, il meccanismo di determinazione del premio (riconoscendo un trattamento economico aggiuntivo maggiore ai dipendenti che effettuino un numero di assenze più esiguo) comporta un abbattimento dell’importo per i fruitori, per ragioni personali o familiari, dei permessi previsti dalla L. n. 104/1992. Se è pacifico che il PdR in esame è finalizzato a dissuadere i prestatori dall’assenteismo, tuttavia, non può dirsi che tale strumento premiale sia imprescindibilmente connesso allo svolgimento dell’attività lavorativa, atteso che il parametro per il calcolo è quello della presenza in servizio (senza che sia richiesto il raggiungimento di determinati obiettivi). Si ricava, dunque, che la disciplina contrattuale – in ordine alla mancata equiparazione della presenza in servizio della assenza per ragioni connesse a esigenze di cura e assistenza – non tiene conto della disabilità, realizzando una discriminazione diretta fondata su tale caratteristica personale [4].

Infine, quanto alla (non meglio specificata) «dimensione collettiva», attribuita dalle parti sociali al dono di sangue e allo svolgimento di attività sindacali (e tale da equiparare le assenze a essa riconducibili alla presenza in servizio, poiché «dirette a soddisfare interessi di una pluralità di persone»), questa non costituisce un parametro giuridicamente corretto all’accertamento per cui è causa. Anzi, non può dubitarsi di come la protezione da riservare ai fruitori dei permessi per la (propria o dei familiari) cura e assistenza riposi su interessi di ordine pubblico e di carattere collettivo.

La tesi sostenuta dei ricorrenti, a parere della Corte d’Appello e con cui si concorda, è, dunque, conforme alla normativa in materia di tutela delle persone con disabilità e il sistema contrattuale che consente una simile disparità retributiva a danno di queste ultime è da considerarsi contrario alla legge, ricadendo in una ipotesi tipizzata di discriminazione.

 

 

[1] Per dovere di completezza, si rammenta come, ai sensi della Direttiva 2000/78/CE, si configuri una «discriminazione diretta basata sull’handicap» quando la persona con disabilità è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in una situazione analoga. Diversamente, la condotta di discriminazione indiretta ricorre una disposizione, un criterio o una prassi apparentemente neutri pongono la persona con disabilità in una posizione di svantaggio rispetto alle altre, a meno che: i) tali atti o comportamenti siano oggettivamente giustificati da una finalità legittima e i mezzi impiegati per il loro conseguimento siano appropriati e necessari, ovvero ii) nel caso in cui il datore sia obbligato dalla legislazione nazionale ad adottare misure adeguate, conformemente ai principi di cui all’art. 5, Dir. 2000/78/CE, per ovviare agli svantaggi provocati da tali atti o comportamenti.

[2] Il sistema contrattuale applicato dalla società datrice adotta un meccanismo premiale finalizzato a contrastare e disincentivare l’assenteismo: sicché, a ogni scaglione di assenze, corrisponde una attribuzione percentuale della quota variabile del premio via via decrescente.

[3] Nei medesimi termini, sul versante della giurisprudenza nazionale in fattispecie inerenti i permessi ex art. 33, L. n. 104/1992, cfr. Cass. n. 14187/2017 e Cass. n. 2466/2018.

[4] In realtà, il contratto collettivo in questione esclude da questa equiparazione tanto i fruitori dei permessi ex L. n. 104/1992, quanto i lavoratori assenti per malattia e infortunio. Benché, in questo secondo caso, l’esclusione sia legittima, poiché la malattia e l’infortunio non sono ricompresi nei fattori di protezione di cui alla Dir. 2000/78/CE (cfr.C. giust., 11 luglio 2006, causa C-13/05, punto 44, ove viene «esclusa un’assimilazione pura e semplice delle nozioni di handicap e malattia»), nel primo caso, deve, invece, ritenersi che siffatta mancata equiparazione integri una discriminazione diretta basata sulla disabilità.

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