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Pubblicata la DIRETTIVA (UE) 2023/970 sulla trasparenza retributiva: recepimento entro il 7 giugno 2026

Attualità - Anna Zilli - 17 Maggio 2023

 

Sulla Gazzetta Ufficiale dell’Unione europea del 17 maggio 2023 trova posto la DIRETTIVA (UE) 2023/970 DEL PARLAMENTO EUROPEO E DEL CONSIGLIO del 10 maggio 2023 volta a rafforzare l’applicazione del principio della parità di retribuzione tra uomini e donne per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore attraverso la trasparenza retributiva e i relativi meccanismi di applicazione a conclusione di un lungo percorso.

Nella consapevolezza che difficilmente i Paesi europei avrebbero intrapreso percorsi ulteriori rispetto a quelli accolti con la Risoluzione del 2014 [1], la promozione della trasparenza salariale a livello dell’UE è stata affidata alla Proposta di Direttiva n. 2021/93 del Parlamento e del Consiglio «per rafforzare l’applicazione del principio della parità di retribuzione tra uomini e donne per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore attraverso la trasparenza delle retribuzioni e meccanismi esecutivi» [2] che oggi vede la luce, dopo i dovuti passaggi.

In primo luogo, la Direttiva va chiarire cosa si intenda per «lavoro di pari valore», chiedendo che il confronto tra posti e retribuzioni avvenga secondo criteri oggettivi e neutri dal punto di vista del genere, quali l’istruzione, i requisiti professionali e di formazione, le competenze, l’impegno e le responsabilità, il lavoro svolto e la natura delle mansioni da svolgere.

Non si impedisce ai datori di lavoro di retribuire in modo diverso lavoratori che svolgano lo stesso lavoro o un lavoro di pari valore, ma si chiede che tali differenze siano basate su criteri oggettivi, neutri dal punto di vista del genere e senza pregiudizi. Questo consentirà, a livello nazionale, di agevolare la prova della discriminazione, superando anche l’orientamento giurisprudenziale che ha sinora consentito erogazioni e premi differenziati discrezionalmente [3].

La Direttiva compone un concetto ampio di retribuzione, che comprende non solo la retribuzione-base, ma anche le componenti accessorie, in denaro o in natura, che i lavoratori ricevono direttamente o indirettamente dal datore di lavoro. Il riferimento è a gratifiche, indennità per straordinari, servizi di trasporto (comprese le autovetture fornite dal datore di lavoro e gli abbonamenti), indennità di alloggio, indennità per la partecipazione a corsi di formazione, somme erogate in caso di licenziamento, maggiorazioni per straordinari, una tantum discrezionali, indennità di malattia previste per legge, indennità obbligatorie per legge e trattamenti pensionistici complementari.

Relativamente all’ambito di applicazione, la Direttiva riguarda tutti i lavoratori, compresi i lavoratori a tempo parziale, a tempo determinato e tramite agenzia. I lavoratori domestici, a chiamata, occasionali e impiegati tramite piattaforma digitale, nonché i tirocinanti e gli apprendisti, rientrano nell’ambito di applicazione della (Proposta di) direttiva, a condizione che soddisfino i criteri che stabiliti dalla Corte di Giustizia per individuare chi sia un lavoratore[4].

Dal lato dei datori, la Direttiva comprende sia il settore pubblico sia quello privato, prevedendo che, sin dall’offerta di lavoro, essi dovranno essere trasparenti, offrendo ai candidati informazioni obiettive sulla retribuzione collegata alla posizione offerta, da comunicare attraverso un’offerta pubblica, oppure in occasione delle selezioni. Altresì, ai datori di lavoro sarà vietato indagare sulle precedenti condizioni stipendiali del/la candidato/a.

Nel rapporto di lavoro, le organizzazioni dovranno rispondere alle richieste dei lavoratori in tempi ragionevoli. Solo per i datori di maggiori dimensioni (che occupino più di 250 lavoratori) sono previsti obblighi di informazione annuali ed elaborazione di report relativi al gender pay gap a) totale; b) rispetto alle componenti accessorie e variabili; c) indicando gli stipendi medi di uomini e donne totali e d) nelle parti componenti accessorie e variabili nonché e) mostrando in quale rapporto uomini e donne ricevano compensi aggiuntivi. Altresì, dovranno essere resi noti f) la distribuzione del personale per genere in ogni quartile retributivo e g) il divario retributivo tra lavoratrici e lavoratrici per categorie di lavoratori, suddiviso per stipendio base ordinario e componenti complementari o variabili (art. 8).

I costi stimati per l’attività prevista sono stati davvero modesti (dai 20 euro per la richiesta singola ai 900 per l’elaborazione dei prospetti richiesti ai grandi datori di lavoro): si tratta di piccoli sforzi, in grado di generare enormi benefici per la collettività [5].

Soprattutto, qualora dalla relazione sulle retribuzioni dovesse emergere un divario retributivo di genere pari o superiore al 5%, che il datore di lavoro non sia in grado di giustificare in base a fattori oggettivi e neutri dal punto di vista del genere, si dovrà “porre rimedio alla situazione”, anche in collaborazione con i rappresentanti dei lavoratori, l’Ispettorato del lavoro e/o gli organismi di parità (art. 9). Un semplice sguardo alle statistiche fa immediatamente comprendere come, nel nostro Paese, non vi sia alcun settore esente da discriminazioni stipendiali.

Quanto ai profili processuali, la  Direttiva stabilisce che, qualora il datore di lavoro non abbia rispettato i propri obblighi di trasparenza, chi si ritenga discriminato/a non dovrà nemmeno presentare le prove della discriminazione, perché spetterà al datore di lavoro dimostrare l’assenza di discriminazione. È confermata l’impostazione del d.lgs. n. 198/2006, ove si prevede l’azione in giudizio degli organismi per la parità ad adiuvandum nelle controversie individuali e in proprio in caso di discriminazioni collettive (artt. 37 ss., d.lgs. n. 198/2006), ma tali soggetti potranno anche agire in nome proprio non solo in caso di discriminazioni collettive, ma anche in qualsiasi procedimento giudiziario o amministrativo.

Poiché notoriamente i costi del contenzioso costituiscono un ostacolo procedurale che crea un grave disincentivo per le vittime di discriminazione retributiva di genere a rivendicare il diritto alla parità di retribuzione, al fine di garantire un maggiore accesso alla giustizia e per incentivare i lavoratori a far valere i propri diritti, nell’ipotesi in cui i lavoratori siano soccombenti le spese devono essere compensate, a meno che la causa non sia stata intentata in malafede, per motivi pretestuosi o nei casi in cui il mancato recupero sia considerato irragionevole in relazione al caso concreto (ad esempio, nell’ipotesi di microimprese in difficoltà, art. 19). Si tratta di una condivisibile lettura del principio per cui la compensazione delle spese è ammessa anche per “gravi ed eccezionali ragioni” [6], auspicabilmente da estendere a tutte le vicende in cui vi sia sbilanciamento di potere (economico e non solo) tra le parti.

Quanto invece agli aspetti sanzionatori, si chiede agli Stati membri di approntare meccanismi sanzionatori effettivi, proporzionati e dissuasivi, che tengano conto della gravità e della durata dell’infrazione, di qualsiasi intenzione o negligenza grave da parte del datore di lavoro o di qualsiasi altra circostanza del caso (art. 15).

Altresì, i soggetti discriminati avranno diritto al pieno risarcimento per ogni pregiudizio patito, comprese la perdita di chances e i danni alla persona che lavora: su di essi il legislatore dovrà esprimersi «evitando di prevede un tetto per i risarcimenti (art. 14) ma anche di perpetuare le discrezionalità connesse alla assai spinosa questione, relativa all’esercizio del potere equitativo del giudice quando si tratta di lesioni alla personalità morale del prestatore» [7].

La Direttiva è di grandissimo interesse, perché pone in campo una serie di strumenti di trasparenza idonei a supportare il superamento del divario di genere. L’evoluzione tecnologica che ha smaterializzato la busta paga e, infine, automatizzato le attività relative alla sua formazione, consentendo una scomposizione minuziosa di tutti gli elementi che definiscono il lavoratore, produce oggi “nuova conoscenza” relativa alla persona che lavora, che si realizza anche attraverso l’estrazione di informazioni dai dati disponibili e la conseguente rielaborazione[8].

Ma i cd. big data così prodotti, e che oggigiorno rappresentano, per quel che ci interessa, incredibili strumenti di management delle risorse umane, potrebbero essere finalmente utilizzati anche pro-labour: in una sorta di profilazione alla rovescia, essi consentono di posizionare il singolo lavoratore, con le sue caratteristiche personali, nella classifica dei trattamenti retributivi aziendali. Si tratterebbe, dunque, di indicare al singolo soltanto le proprie coordinate, mostrandogli però dove sono gli altri “punti” sulla mappa stipendiale, consentendo estrazioni per caratteristiche oggettive.

Ove ciò non sia possibile per l’esiguità dei lavoratori da considerare (in senso assoluto o comparabili), con il pericolo che la disclosure possa condurre alla divulgazione, direttamente o indirettamente, della retribuzione di un collaboratore identificabile, l’art. 10 della Direttiva dà facoltà agli Stati membri di garantire l’accessibilità delle informazioni ai soli rappresentanti dei lavoratori o agli Organismi per la parità, che potranno rendere edotti i lavoratori circa la situazione, senza rivelare i livelli salariali effettivi dei singoli lavoratori che svolgono lo stesso lavoro ovvero il lavoro di pari valore.

Se dunque l’accesso ai dati concernenti classi stipendiali, retribuzioni, indennità e altri emolumenti corrisposti a lavoratori pubblici dipendenti è già stato ammesso perché prevalgono le esigenze di trasparenza e chiarezza dell’azione amministrativa [9], la tecnologia soccorre i lavoratori del settore privato nella ricerca di giustizia, attraverso la trasparenza, consentendo, come mai prima d’ora, di accedere ai dati del settore e del singolo contesto di lavoro, adeguatamente anonimizzati e rielaborati e, finalmente, utilizzabili in giudizio.

Non solo: la percezione di vivere in un ambiente di lavoro equo accresce i livelli di soddisfazione e impegno, che rappresentano leve fondamentali per il benessere della persona che lavora, che si traduce anche in una maggior produttività [10].

È vero che ad oggi non esistono analisi economiche dettagliate riguardanti gli effetti specifici dell’introduzione delle misure a favore della trasparenza salariale, ma può certamente cogliersi il legame tra l’adozione di tali misure, il raggiungimento della parità retributiva e le pari opportunità per uomini e donne nel mondo del lavoro e nella società in generale. Il percorso è avviato e, se tutto andrà come previsto, nell’arco di un decennio se ne vedranno i risultati.

[1] Si v. la valutazione delle pertinenti disposizioni giuridiche dell’UE in materia di parità retributiva, 2020, in https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:52020DC0152&from=EN.

[2] In https://ec.europa.eu/transparency/regdoc/rep/1/2021/IT/COM-2021-93-F1-IT-MAIN-PART-1.PDF.

[3] Lazzeroni, Le discriminazioni nel rapporto di lavoro, in Barbera, Guariso (a cura di), La tutela antidiscriminatoria. Fonti Strumenti Interpreti, Torino, 2019, 165, qui spec. 206.

[4] Sia consentito il rinvio a Zilli, Il lavoro su piattaforma, in Carinci, Pizzoferrato (a cura di), Diritto dell’Unione Europea, Torino, 2021, 314 e alla bibliografia ivi contenuta.

[5] Secondo l’Unità del Valore Aggiunto Europeo (AVA), European added value assessment on the application of the principle of equal pay for men and women for equal work of equal value, in https://op.europa.eu/it/publication-detail/-/publication/98a2b7d9-eb87-490b-81cb-987deea0d078 una riduzione di un punto percentuale del divario retributivo di genere comporterebbe un aumento del prodotto interno lordo dello 0,1%; secondo le stime Centro comune di ricerca della Commissione (in https://op.europa.eu/it/publication-detail/-/publication/4320dc0c-7cd4-11eb-9ac9-01aa75ed71a1/language-it/format-PDF/source-200724836) le conseguenze socioeconomiche della riduzione di 3 punti percentuali del divario retributivo di genere riduce il rischio di povertà (in particolare per le famiglie monoparentali, che riguardano per lo più le donne) e porta ad un aumento delle entrate fiscali pubbliche.

[6] Corte Cost., sent., n. 18 giugno 2018, n. 77.

[7] Bilotta, La molestia verbale viola la dignità della persona che lavora, Nota a ord. Cass. civ. sez. lav. 19 febbraio 2019 n. 4815, in RCP 2019, 6, 1881 ss.; Pezzini, La (discutibile) qualificazione dello “straining” come un “minus” del “mobbing”, ma a oneri probatori invariati, in RCP, 2020, 2, 496 ss.

[8] Dagnino, People Analytics: lavoro e tutele al tempo del management tramite big data, in Labour & Law Issues, 2017, 3, 1 ss.

[9] Ex multis T.A.R. Lazio, Roma, Sez. III-quater, sent., n. 33341 del 9 novembre 2010.

[10] Malzani, La qualità del lavoro nelle politiche per l’impiego e nella contrattazione decentrata, in WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”.IT – 313/2016.

 

 

 

 

 

 

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