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Nuove regole per lo smart working nella p.a. in emergenza Covid-19

Attualità - Anna Zilli - 20 Ottobre 2020

E’ stato reso noto il decreto della Ministra della PA Dadone in tema di smart working, emanato in attuazione delle ultime regole assunte per contenere la pandemia Covid-19.

La scelta fatta è un (nuovo) tentativo di bilanciamento tra la  continuità nell’erogazione dei servizi e la salute dei pubblici impiegati (e di riflesso di tutti noi).

Rispetto alla previsione della legge n. 81/2017, che prevedeva il 10% del personale della p.a. adibito al lavoro “in alternanza” tra ufficio e “remoto” (casa o altro luogo in cui poter garantire la prestazione), la legislazione dell’emergenza del 2020 aveva sin da principio optato per lo smart working come “prima scelta” (rispetto a quella alternativa di lasciare i dipendenti pubblici a casa, pagati, ma senza lavorare).

A poco a poco, si erano ripopolati (a metà) gli uffici pubblici, lasciando ai dirigenti il compito di a) individuare le mansioni e le attività da poter svolgere in regime di lavoro agile da casa; b) adibire il personale a tali attività. E tutto ciò anche senza il consenso dei lavoratori.

Ora lo stato di emergenza, che nel frattempo è stato prorogato (quantomeno) sino al 31 gennaio 2021, ha imposto una revisione, anche alla luce dell’esperienza fatta in questi mesi e che tante polemiche aveva fatto sorgere, in ordine alla effettiva efficiacia dell’azione amministrativa così realizzata.

L’esito è il decreto in commento, ove si prevede che ciascuna amministrazione assicuri  lo svolgimento del lavoro agile almeno al 50% del personale impegnato in attività che possono essere svolte secondo questa modalità. Si noti il passaggio di non poco conto: da “il personale impiegato” alle “prestazioni che possono essere rese con questa modalità”.

La scelta delle attività che possono essere svolte in modo smart spetta alla p.a., che sino al 31 dicembre 2020 non ha bisogno del consenso del lavoratore, che eventualmente potrà consultare il sindacato.

Il lavoratore agile dovrebbe alternare giornate lavorate in presenza e giornate lavorate da remoto, secondo il principio della rotazione, con  priorità in relazione alle condizioni di salute dei componenti del nucleo familiare del dipendente, della presenza di figli minori di quattordici anni, della distanza tra la zona di residenza o di domicilio e la sede di lavoro, nonché del numero e della tipologia dei mezzi di trasporto utilizzati e dei relativi tempi di percorrenza. Altresì, l’amministrazione deve favorire il lavoro agile per i lavoratori disabili o fragili, anche attraverso l’assegnazione di mansioni diverse e di uguale inquadramento e, in ogni caso, promuovendo il loro impegno in attività di formazione.

Lo smart working si svolgerà di norma senza vincoli di orario e luogo di lavoro, ma potranno essere previste fasce di contattabilità, garantendo al prestatore i tempi di riposo e la disconnessione dalle strumentazioni tecnologiche di lavoro. Secondo il Decreto, gli “attrezzi del mestiere” potranno essere forniti dalla p.a., benché rimanga consentito l’utilizzo di strumentazione di proprietà del dipendente.

Poiché, infine, i dipendenti in modalità agile non debbono subire penalizzazioni professionali e di carriera, le pp.aa. dovrebbero (nell’emergenza!) adeguare i sistemi di misurazione e valutazione della performance alle specificità del lavoro agile. Il dirigente, verificando anche i feedback che arrivano dall’utenza e dalle imprese, dovrebbe monitorare le prestazioni rese in smart working da un punto di vista sia quantitativo sia qualitativo. L’uso del condizionale è d’obbligo, vista la criticità dell’attuale fase.

L’alternativa, o forse il mix, è dato dall’incremento della flessibilità oraria in entrata e in uscita rispetto a quella già adottata, al fine di permettere che “in qualunque modo” la p.a. porti a termine l’attività, cioè l’erogazione efficiente ed efficace dell’azione pubblica.

In tutto questo, l’utente – cittadino rimane sullo sfondo, lontano rispetto ad una p.a. che sempre più pretende che la via per l’accesso ai servizi sia digitale e accentrata nei grandi centri.

Infatti, il canale digitale può (se ben utilizzato) essere utile e vantaggioso per le imprese, che hanno strutture e strumenti per adeguarsi al cambio di passo che la p.a. sta realizzando. Diversamente, per l’utente medio, la p.a. è ormai un soggetto ostile. Basti pensare che dal 1 ottobre per accedere al portale INPS è necessario essere dotati dello SPID, l’identità digitale che si ottiene (non in automatico ma) attraverso una non semplice e non immediata procedura burocratica.

Le discriminazioni digitali stanno aumentando e pongono importanti questioni di ordine etico, ben oltre il livello tecnico.

Ci si deve chiedere se, di fronte alla fascinazione di una p.a. “aperta 24 su 24” nel mondo virtuale, sia ammissibile che il godimento dei servizi pubblici venga mediato da strumenti che non sono alla portata di tutti, men che meno in un Paese di anziani e persone in situazione di povertà come il nostro.

L’esclusione delle fasce più fragili della popolazione dall’interazione con la p.a. deve interrogarci profondamente. Si avverte la necessità di  “mediatori digitali“, cioè di persone (in carne, ossa… e mascherina chirurgica, al momento!) che riescano a rinsaldare il legame tra l’amministrazione e la collettività, senza lasciare indietro nessuno. L’alternativa è una p.a. forse migliore per i propri dipendenti, ma non certo al servizio della collettività.

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