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Il reddito di libertà per le donne vittime di violenza

Attualità - Loretta Moramarco - 17 Dicembre 2021

Il 24 novembre 2021 è stata rilasciata dall’INPS, con messaggio n. 4132, la procedura telematica di acquisizione delle domande per il c.d. reddito di libertà da parte dei Comuni: è, pertanto, possibile presentare domanda per il contributo dall’evocativo nome di “reddito di libertà per le donne vittime di violenza”, istituito dal DPCM del 17 dicembre 2020, con una dotazione di tre milioni di euro per l’anno 2020.

La finalità, dichiarata dall’art. 1, comma 2, è quella di contenere i gravi effetti economici derivanti dall’emergenza epidemiologica da COVID 19, in particolare per quanto concerne le donne in condizioni di maggiore vulnerabilità, nonché di favorire, attraverso l’indipendenza economica, percorsi di autonomia e di emancipazione delle donne vittime di violenza in condizione di povertà. Tanto è stato chiarito altresì dall’INPS con la circolare n. 166 dell’8 novembre 2021.
Le destinatarie sono le donne vittime di violenza, sole o con figli minori, seguite dai centri di violenza riconosciuti dalle Regioni e dai servizi sociali nei percorsi di fuoriuscita dalla violenza, al fine di contribuire a sostenerne l’autonomia. L’istanza va presentata dalla donna, una sola volta, all’INPS con allegata una autocertificazione dell’istante, la dichiarazione, firmata dal rappresentante legale del Centro antiviolenza presso cui è presa in carico che ne attesti il percorso di emancipazione ed autonomia intrapreso e la dichiarazione del servizio sociale competente che attesti lo stato di bisogno legato alla situazione straordinaria o urgente. Il “reddito di libertà” è pari ad euro 400,00 mensili per massimo 12 mensilità.

Il comma 5 dell’art. 3 individua anche le finalità del reddito ossia sostenere prioritariamente le spese per assicurare l’autonomia abitativa e la riacquisizione dell’autonomia personale nonché il percorso scolastico e formativo dei/delle figli/figlie minori. Importante, poi, la precisazione che esso non è incompatibile con altri “strumenti di sostegno” quale il reddito di cittadinanza, di cui al decreto legge 28 gennaio 2019, n. 4, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 marzo 2019, n. 26, e con la fruizione di eventuali altre misure in denaro a favore dei figli a carico, erogate dalle Regioni, Province autonome di Trento e di Bolzano e dagli Enti locali, o di altri sussidi economici a sostegno del reddito (Rem, NASpI, ecc.).

Questa misura – che è definita “reddito”, ma reddito non è – è pertanto uno strumento analogo al reddito di cittadinanza ossia una prestazione assistenziale, una provvidenza sociale e/o economica fornita in particolari situazioni di difficoltà o, in ogni caso, per garantire sostegno a quanti si trovino in peculiari condizioni socio-economiche.
La prima, ovvia, considerazione critica è che si palesa come una misura “spot” che è legata ad una emergenza nell’emergenza ossia l’incremento di denunce post COVID-19, sebbene la necessità di un “reddito di libertà” sussista in sé alla luce della condizione di debolezza economica di molte donne vittime di violenza, specie di quelle che si rivolgono ai centri, spesso unico supporto laddove sia assente una rete familiare o comunque sociale o le violenze mettano a rischio la vita o l’incolumità fisica delle donne e/o dei minori.
La seconda osservazione riguarda gli importi asseritamente destinati all’autonomia abitativa che non tengono conto delle rilevantissime differenze territoriali dei canoni di locazione che rendono di fatto possibile realizzare la finalità dichiarata solo in piccoli centri oppure per donne senza figli. Non vi è, peraltro, neppure una gradazione degli importi in ragione dei componenti del nucleo familiare (come invece previsto per il reddito di cittadinanza).
Molto altro sarebbe possibile (e forse opportuno) prevedere per garantire reddito e lavoro alle persone in uscita dalla violenza domestica.

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