Chi non lavora, non mangia! I riposi genitoriali fanno perdere il buono pasto
Il buono pasto è un benefit aziendale, che dà diritto a un servizio sostitutivo della mensa ove questa manchi.
In base al DM n. 122 del 7 giugno 2017, i buoni pasto sono utilizzabili dai prestatori, sia in regime di tempo pieno, sia di tempo parziale, anche in via cumulativa e, dal 1° gennaio 2020, sono più convenienti in formato elettronico, anzichè cartaceo, poiché l’importo giornaliero massimo che non concorre a formare il reddito di lavoro del dipendente è elevato da 7 a 8 euro, ove siano erogati in formato elettronico, mentre è ridotto da 5,29 a 4 euro in caso di buoni cartacei (art. 1, comma 677, L. 160/2019).
La giurisprudenza ritiene che non si tratti di corrispettivi per la prestazione, ma di benefici connessi alle modalità del suo svolgimento orario: sicché, legati alla consumazione del pasto come ristoro delle enegie psico-fisiche, spetterebbe in quanto la durata della giornata lavorativa ricomprenda anche le ore destinate alla pausa pranzo (Cass. 28 novembre 2019, n. 31137).
L’art. 8, d.lgs. n. 66/2003 stabilisce che “qualora l’orario di lavoro giornaliero ecceda il limite di sei ore il lavoratore deve beneficiare di un intervallo per pausa, le cui modalità e la cui durata sono stabilite dai contratti collettivi di lavoro, ai fini del recupero delle energie psico-fisiche e della eventuale consumazione del pasto anche al fine di attenuare il lavoro monotono e ripetitivo”.
Altresì, i contratti collettivi prevedono di norma la pausa-pranzo ove l’orario di lavoro abbia durata superiore a sei ore: dall’orario oltre le sei ore discende l’obbligo di riposo (di dieci minuti); dall’obbligo di riposo, la facoltà di consumare il pasto; da essa, si fa derivare il diritto al godimento del buono.
Nel tempo, sono sorte plurime questioni: in particolare, nella pandemia, quella più scottante è stato il diritto, o meno, al godimento dei buoni in caso di lavoro agile, ormai generalmente garantito, nonostante la prestazione sia organizzata dal lavoratore. In questi casi, il riconoscimento avviene in virtù del principio di parità di trattamento tra lavoratori smart e non.
Ci si concentra qui, invece, sulla paradossale vicenda dei riposi genitoriali.
L’art. 39, d.lgs. n. 151/2001 prevede il diritto della madre lavoratrice subordinata a godere <<durante il primo anno di vita del bambino (di) due periodi di riposo, anche cumulabili durante la giornata. Il riposo è uno solo quando l’orario giornaliero di lavoro è inferiore a sei ore>>. I periodi di riposo cennati <<hanno la durata di un’ora ciascuno e sono considerati ore lavorative agli effetti della durata e della retribuzione del lavoro>> e sono di <<mezz’ora ciascuno quando la lavoratrice fruisca dell’asilo nido o di altra struttura idonea, istituiti dal datore di lavoro nell’unità produttiva o nelle immediate vicinanze di essa>>.
I permessi possono essere usufruiti dal padre, in caso di madre lavoratrice autonoma o che opti per il congedo parentale a ore, alle medesime condizioni: ad oggi, però ne fruiscono principalmente le madri, tanto che dal sindacato si sono levate voci in ordine al corretto utilizzo della terminologia. Infatti, continuare a chiamarli “permessi per allattamento” veicola l’idea che si tratti di permessi solo per donne e solo per tale fine.
Secondo l’art. 39, d.lgs. 151/2001, i riposi giornalieri debbono essere <<considerati ore lavorative agli effetti della durata e della retribuzione del lavoro>>.
Spettano dunque anche al genitore, che riduca la prestazione, al di sotto delle sei ore giornaliere?
Non secondo il Ministero del lavoro, che con risposta a interpello n. 2/2019, sostiene si debba tenere conto (solo) dell’attività lavorativa effettivamente prestata.
Parimenti, anche secondo la giurisprudenza, il buono pasto non spetta se la prestazione viene ridotta: in una recentissima ordinanza dei giorni scorsi in materia di pubblico impiego, la Cassazione, ord. sezione lavoro, 25 maggio 2022, n. 16929 ha affermato che chi non raggiunge le sei ore di lavoro effettivo, non ha diritto alla pausa pranzo e, dunque, non matura il diritto al buono pasto.
Chi li ritiene non dovuti al genitore accudente, fa leva sul fatto che non si tratta di retribuzione ma di un beneficio assistenziale, che si collocherebbe al di fuori dell’art. 39, d.lgs. n. 151/2001.
Il recente arresto giurisprudenziale non convince.Da un lato, è noto che il buono pasto è utilizzabile anche quando non sia previsto un orario che comprenda la pausa; dall’altro, esso, di prassi, viene utilizzato presso gli esercizi commerciali anche per l’acquisto di beni alimentari destinati al consumo presso la abitazione del beneficiato, contribuendo al sostentamento familiare.
Altresì, il dato statistico consegna una fruizione dei riposi quasi completamente in capo alle madri: prassi amministrativa e giurisprudenza sembrano però non vedere come si tratti di una discriminazione indiretta, che colpisce le lavoratrici in misura non solo più rilevante, ma che si accanisce su chi non opti per il rientro al lavoro a tempo pieno, non appena conclusa l’astensione obbligatoria.
In un mondo ideale, con nidi aziendali, forse sarebbe possibile e magari, secondo alcuni, auspicabile.
Nel mondo reale, privo di servizi, il godimento di un diritto e lo svolgimento di una essenziale funzione di cura comporta un (ulteriore) impoverimento delle madri e, più ampiamente, delle famiglie.