BLOG

30 anni di parole della politica: Elena Pepponi intervista Gabriele Maestri

Lingua Diritto Diritti - Elena Pepponi - 26 Luglio 2023

Essendo nata nel luglio del 1993, sono particolarmente sensibile al volgere del trentesimo anno, verificatosi per me pochi giorni fa. Per questo, ho deciso che il contributo di luglio per la rubrica Lingua, diritto, diritti di Equal sarebbe stato incentrato su parole e politica degli ultimi 30 anni.

Per farlo, ho deciso di partire da un evento cardine verificatosi proprio trent’anni fa: la fine politica – anche se non ancora formale – della Democrazia Cristiana, il più partecipato partito dal dopoguerra agli anni Novanta e quello capace di stare al potere ininterrottamente per più di quarant’anni. Il 26 luglio 1993, alla fine della cosiddetta Assemblea Programmatica Costituente, svoltasi al PalaCongressi dell’EUR, a Roma, e durata quattro giorni, venne votata praticamente all’unanimità la relazione conclusiva proposta dal segretario Mino Martinazzoli, decidendo di dichiarare concluso il tempo della DC e di preparare il ritorno al Partito Popolare italiano.

Per fare una panoramica di come le parole abbiano scandito questo passaggio e anche i successivi trent’anni di politica italiana ho deciso di intervistare il giurista costituzionalista Gabriele Maestri, già ospite di questa rubrica nel mese di febbraio con una riflessione su lingua e giustizia sociale (https://www.dirittoantidiscriminatorio.it/giustizia-sociale-un-cammino-giuridico-lessicale-ancora-in-corso//).

Maestri, due volte dottore di ricerca (in Teoria dello stato all’Università di Roma “La Sapienza” e in Scienze politiche – Studi di genere all’Università di Roma Tre), docente a contratto di Diritto dei partiti italiano e comparato a Roma Tre, nonché amministratore del sito www.isimbolidelladiscordia.it dal 2012, ha di recente inaugurato una nuova esperienza: è infatti autore del podcast Scudo (In)crociato, che riguarda le vicende della Democrazia Cristiana a partire proprio dalla svolta del 1993 (podcast disponibile qui: https://www.dirittoantidiscriminatorio.it/giustizia-sociale-un-cammino-giuridico-lessicale-ancora-in-corso/). Ho deciso di fargli un po’ di domande per analizzare con lui il rapporto della politica, in particolare della politica dei partiti, con le parole.

Gabriele, perché hai scelto di trattare la DC nel tuo podcast e come questo si colloca nel panorama nazionale?

Ho scelto la DC perché probabilmente è uno degli argomenti di cui mi sono occupato di più nel corso degli anni, e tra l’altro mi interessava anche qualcosa che avesse a che fare con le parole: mi affascinavano gli scontri che in nome del vecchio nome e del vecchio simbolo si sono consumati da trent’anni a questa parte. La fine dell’esperienza DC con quel nome ha coinciso con un nuovo inizio anche linguistico. I cattolici non si sono più riconosciuti in un partito solo, superando di fatto l’impostazione iniziale con cui si era fondata la DC.

Dopo la Seconda guerra mondiale, infatti, si erano confrontate due possibili linee: quella, proposta tra l’altro da Giovanni Battista Montini, il futuro papa Paolo VI, che sosteneva l’idea di dare vita a un partito unico in cui tutti i cattolici potessero riconoscersi, e quella che invece preferiva creare una enclave cattolica in ogni partito. Prevalse la prima linea e ne conosciamo gli effetti: quasi mezzo secolo di signoria incontrastata sulle altre forze politiche.

Caduto il muro di Berlino, il ruolo della DC come argine al comunismo non aveva più senso. Dopo il 1993, e in particolare tra il ‘94 e il ’95, emergono dissensi sul posizionamento e sulle alleanze dei cattolici in politica. Iniziano scissioni e lotte fratricide, specie quella consumatasi nel 1995, terminata con un accordo tra le due fazioni del PPI: una si tiene il simbolo dello scudo crociato e l’altra il nome (lo racconterò nella quarta puntata del podcast, in uscita il 22 agosto). A quel punto, si assiste a due fenomeni: da un lato, il progressivo auto-isolamento e auto-depotenziamento dei cattolici in politica, cattolici che avevano contato sempre moltissimo nel corso della storia, anche nelle scelte in cui materialmente avevano perso; dall’altro, l’inizio di una lite senza fine di prime ma anche di ultimissime file per tentare di recuperare in qualche modo alla vita quel partito, quel nome e quel simbolo.

Per queste ragioni ho scelto di occuparmene: questi motivi rendono la storia molto complessa, non facile da seguire, ma molto avvincente e fortemente legata a poche parole che però racchiudono in sé un mondo intero. Questa storia continua a riservare nuove puntate, è affascinante proprio per la sua complessità e perché tanti passaggi meritano di essere spiegati e compresi. È un pezzo della nostra cultura che ci caratterizza, nel bene e nel male, e non conoscerlo forse è una mancanza. Tanto nei miei racconti scritti, quanto nel podcast riesco a raccontare queste vicende anche grazie all’archivio di Radio Radicale, che ha registrato almeno in audio molti degli eventi che segnano questa storia e mi ha concesso l’uso dei suoi materiali.

Dunque qual è il rapporto della DC con le parole e con i nomi? Problematico, assolutista, o cos’altro?

Il passaggio del nome da Democrazia cristiana a Partito Popolare Italiano di fatto si compie in vari mesi, al punto che non tutti lo collocano nello stesso momento: c’è chi lo riconduce al 18 gennaio 1994, giorno di presentazione del PPI, chi lo collega all’assemblea di luglio del 1993, evento da cui parte la tua riflessione, chi individua momenti ancora precedenti. Siamo in ogni caso di fronte a un procedimento complesso e magmatico, che porta a una scelta lessicale paradossalmente opposta rispetto alla dinamica di quel periodo. Dal 1993-1994 in avanti, infatti, la parola partito diventa un termine in via di estinzione nella politica. Se ci pensi oggi è quasi scomparso, ma già allora, diciamo dal 1993, abbiamo una quantità di soggetti politici nuovi che si qualificano con nomi altrettanto nuovi: lista, movimento, patto, unione, alleanza, ma spesso i loro nomi non contengono nemmeno queste parole. La parola partito praticamente sparisce. In controtendenza la DC, che era una delle poche forze politiche a non aver usato quel termine per cinquant’anni nella sua “etichetta”, proprio nel 1993 recupera il vecchissimo nome di Sturzo (Partito Popolare Italiano), e lo fa per riconnettersi a una parte nobile della sua storia non sporcata da scandali. Però è interessante valutare come, in un’epoca in cui tutte le persone cercavano di andare spasmodicamente avanti, la DC ha questo ritorno nominale al passato molto forte e molto evidente, fatto peraltro con l’intento di salvare il partito.

Quindi è “partito” la parola che causa tutti i mali? È da lì che la politica italiana ha preso le mosse per un rinnovamento?

Se tu guardi l’arco parlamentare della Prima Repubblica, non tutti avevano la parola partito nel nome, eppure non si poteva negare che tutti fossero partiti sul piano politico e organizzativo.

Il centro era rappresentato dalla DC: pur non avendo la parola nel nome, nessuno metteva in dubbio che fosse davvero un partito. Verso destra avevi il Partito Liberale italiano; ancora più a destra – e, in realtà, al di fuori dell’arco costituzionale – c’era il Movimento Sociale Italiano, che non usava la parola partito forse per evitare accuse di riorganizzazione del partito fascista e, in ogni caso, con il termine movimento dava l’idea di un impegno dinamico, più che di una struttura burocratica. Guardando più a sinistra, quasi tutte le forze politiche (dai repubblicani ai socialisti ai comunisti) utilizzavano la parola di cui parliamo ora.

Partito indica comunque l’adesione a un modello che è inevitabilmente collettivo: anche movimento e unione sono collettivi, patto altrettanto (il concetto di patto nasce nel 1992 con Mariotto Segni, proprio mentre stava nella DC). Però il partito, oltre che essere collettivo, è sicuramente più strutturato: ha un apparato più solido del movimento, che dà l’idea di qualcosa di magmatico e mutevole, ha un piglio più stabile dell’unione, e anche un respiro più ampio rispetto a patto, che di solito si riferisce a un accordo mirato un periodo definito, non dando l’idea dell’organizzazione e non evocando la stabilità di un partito (e di solito, infatti, non ha lunga durata).

Se vuoi dirla con Carlo Levi, “le parole sono pietre”: rifiutare o cercare alternative al concetto di partito significa lasciare indietro qualcosa. Cosa si rifiuta? In quel periodo, in cui i partiti godevano di poca stima causa Tangentopoli (nata come Mani Pulite) ed erano mal considerati, presentarsi come partito era come andare al massacro, perché le persone rigettavano l’idea del partito in sé. Anche in seguito, anche ora una frase ricorrente è “Noi non stiamo facendo un nuovo partito”: non si vuole dare l’immagine di chi sta compiendo l’ennesima scissione formando un partitino in cui andare a svernare. Dopo il 1992, dunque, il concetto di partito è quasi ritenuto tossico e se ne fugge, nonostante l’Italia dal 1946 (e già prima) ai primi anni Novanta sia stata “La repubblica dei partiti” (definizione dello storico Pietro Scoppola): i partiti hanno plasmato l’Italia nel male, ma anche nel bene, prima all’interno della Resistenza, poi alla Costituente e nella sua storia repubblicana.

E le forze politiche di oggi come si relazionano rispetto al concetto di partito? C’è ancora il rifiuto?

Oggi abbiamo una spaventosa precarietà, che riguarda tutti gli aspetti e i livelli della società. I partiti inevitabilmente esistono ancora e anzi, quelli che sono entrati in Parlamento sono tendenzialmente partiti “quasi veri” (cioè, rispecchiano molto dell’apparato burocratico del partito tradizionale), però è facile fare una verifica: al di fuori del Partito Democratico, quella parola non si trova più. Il PD viene molto dopo Tangentopoli, quindi chiaramente ha fatto la scelta precisa di usare quel termine, del resto molte persone che ne fanno parte hanno votato per partiti autentici in passato e hanno conservato “spiritualmente” quel concetto. Che dire delle altre forze parlamentari? Nel centrodestra abbiamo Fratelli d’Italia, Lega, Forza Italia (che ancora oggi si definisce “movimento politico”); tra i soggetti minori abbiamo Noi con l’Italia, Unione di Centro, nessun partito di nome. La Lega, che ha origine negli anni Ottanta, usa peraltro il suo nome come termine di recupero storico, pensa alla Lega Lombarda contro il Barbarossa, quindi a realtà piccole che si uniscono contro il potere centrale dispotico e accentratore. Chiamarsi Lega e non, per esempio, partito della Lega, oltre al richiamo storico, offre un’impressione diversa: non dà l’idea dell’apparato pesante e costoso che la parola partito formalmente può trasmettere, anzi, indica proprio un rifiuto di tutta quella macchina statale di cui la Lega Nord non si sentiva parte.

Lasciando il centrodestra troviamo Azione e Italia Viva, che sono chiaramente partiti ma scelgono oculatamente di non inserirlo nel nome. Abbiamo poi il MoVimento 5 stelle, che pur non qualificandosi fino a un anno fa come partito, schiera la parola forse più comune in ambito politico: questa era stata scelta per dare l’idea di qualcosa di magmatico e di “ecumenico” rispetto a tante istanze diverse, tanto che a lungo i fondatori hanno parlato di una “non associazione” con un “non statuto”.

Nel centrosinistra incontriamo Più Europa e il Partito Democratico: quest’ultimo continua a ostentare il termine, voluto fortemente nonostante sia nato in un periodo in cui la parola era già molto tabuizzata; vi sono inoltre Alleanza Verdi e Sinistra, Europa Verde e Sinistra italiana, anche qui la parola partito non c’è. Un caso particolare, fuori dal Parlamento, è costituito da Rifondazione comunista: nata ancora nella Prima Repubblica, il suo nome non conteneva formalmente la parola partito, ma questa era sfoggiata nel simbolo, anche per cercare di far valere il legame ideale con il vecchio PCI.

In ogni caso, possiamo affermare con certezza che sulla parola partito molte persone oggi vedano l’etichetta “maneggiare con cura”: chi sceglie di maneggiarla sa di farlo a suo rischio e pericolo.

Immaginiamo una situazione plausibile: c’è un post sui social, pubblicato da una forza politica (una a scelta), e sotto ci sono centinaia di commenti di supporto e centinaia di commenti di cosiddetti haters. Secondo te, tendenzialmente, le forze politiche che hanno palesemente e pubblicamente rifiutato la parola partito tendono ad attrarre un elettorato di pancia, meno istruito e più aggressivo ma molto attaccato all’idea di cambiamento e di rinnovamento, e quelle (poche) che invece lo rivendicano sono poco gradite perché c’è una retorica negativa legata a questo termine? O è una percezione errata?

Nelle forze politiche che ci tengono a distanziarsi dai partiti come incarnazione della burocrazia e del compromesso, chiaramente, gli elettori hanno imparato questo modello e tendono a riprodurlo e a considerarlo l’unico valido. Per quelle in cui, invece, il concetto di partito viene rivendicato, l’elettorato sembra pensare “noi ci crediamo ancora, crediamo che questo sia un valore perché non ci vergogniamo a fare i partiti e a dire di esserlo, perché vogliamo essere stabili”. È chiaro che per qualcuno questo è un valore aggiunto, per la parte avversa è qualcosa che squalifica. Ovviamente chi vuole attaccare lo fa a prescindere dalla presenza della parola partito nel nome. Però quella parola è diventata un semi-tabù, per cui non scherzavo troppo evocando il “maneggiare con cura”: partito è qualcosa di delicato, fa paura, soprattutto per realtà nuove che temono di partire col piede sbagliato evocando tutto quello che c’era prima.

Quando si decide di rinnovare, e lo si fa a partire da un nome, bisogna sempre comprendere se lo si vuole fare azzerando e rinnegando tutto il passato, oppure includendo almeno le esperienze positive. Nella seconda puntata del podcast (uscita il 25 luglio) vediamo che nei giorni concitati di luglio del 1993, almeno per quanto riguarda la DC, il pensiero di fondo è “rinnovare senza rinnegare”.

Nel luglio del ‘93 accadono in pochi giorni o poche settimane cose che nella DC del passato avrebbero richiesto anni. Non si può capire quel passaggio senza pensare agli eventi del ‘92, al ciclone di Mani Pulite e ai suoi effetti, ma quello che accade nel ‘93 è emblematico. C’è la foga del cambiare, ma in che direzione? Non importa, intanto cambiamo: e questa spinta diventa un booster incredibile per un rinnovamento globale. Davvero, quindi, nel giro di pochissime settimane tutto si rivoluziona, e questo accade – è bene ripeterlo di nuovo – a partire anche dalle parole.

In quel periodo la rinuncia ai nomi storici implicava cambiamenti emotivamente pesanti. La DC, come in precedenza il PCI (e, in seguito, a modo suo, il MSI) richiamavano storie collettive precise dell’Italia della “Prima Repubblica”. Si poteva ben dire che non c’era Italia senza DC. Di fronte a queste considerazioni è inevitabile affermare che quelle parole avevano un peso, perché dietro quelle parole c’era veramente un mondo, erano “nomi-scrigno” che racchiudevano una realtà incredibilmente multiforme e carica di valori, ideali. Adesso non è più così.

Possiamo dire che erano nomi capaci di ricondurre a un’ideologia, mentre dopo il ‘93 è diventato non più “Il partito che (fa/dice/pensa questo)” ma “Il partito di”, quindi indissolubilmente personalizzato e legato a una singola figura carismatica, secondo te?

Certamente sì, anche perché il processo di personalizzazione, iniziato con Craxi, dopo gli anni Novanta raggiunge il massimo grado. Sarebbe facile pensare a Silvio Berlusconi, eppure il primo a mettere il proprio nome su un simbolo elettorale non fu lui, ma Marco Pannella, all’inizio degli anni Novanta, prima del referendum elettorale del 1993. Anche in quel caso le parole avevano un significato politico: in un sistema proporzionale, Pannella cercava di emergere e di condurre elettrici ed elettori verso un sistema uninominale in cui contasse veramente metterci il nome e la faccia, con i quali perdere o vincere.

Tuttavia, questo spunto della nominalità ci è utile per fare questa riflessione. Partito era una parola che indicava qualcosa in cui si credeva davvero, in cui ci si metteva in gioco costo di fare a botte (e, in qualche caso, di rimetterci la vita); anche i più piccoli avevano un numero non trascurabile di iscritti. Queste considerazioni valgono però soprattutto per i cosiddetti partiti di massa, i partiti-popolo: milioni di persone si tesseravano, si riconoscevano in essi, la tessera di partito era quasi parte della carta d’identità sociale di chi militava. Quei partiti di massa evocano una dimensione di partecipazione che con la personalizzazione abbiamo perso totalmente. La parola partito nascondeva un mondo, fatto di valori, di ideologie e anche di riti, utili per identificarsi e dare vita a qualcosa di collettivo, di corale.

Nonostante ciò va riconosciuto che Forza Italia, che aveva contribuito a smantellare la parola partito, pur senza un’ideologia precisa (al suo interno erano confluiti molti liberali, ma anche socialisti, cattolici di centro-destra etc.), è riuscita a proporre uno degli ultimi simboli veri e potentemente aggreganti del paese, la famosa bandierina: si rifuggiva il termine partito, ma anche dopo la fine della “Prima Repubblica” si era mantenuta la capacità di aggregare milioni di persone, che si sono riconosciute in miti, riti e valori, e quella di sentirsi parte di un qualcosa di più grande.

Oggi, invece, è tutto molto più veloce, meno solido, ma proprio per questo, forse, inconsistente: le parole che rimandano a un passato che ha conosciuto storture e difetti, ma sicuramente anche maggiore solidità, in qualche modo ci spaventano. Non sono certo che sia un buon segno.

Secondo te il fatto che abbiamo perso la dimensione partecipativa è un vantaggio, o piuttosto uno svantaggio, perché è più facile dissimulare le proprie idee? Credi che oggi ci sia poco spazio per gli assolutisti, prevalendo sempre un non so che di critico, un andarci con i piedi di piombo, un non far vedere le proprie idee politiche, perché poi è più facile tirarsi fuori all’ultimo se le cose si mettono male?

Non so se sia un modo per dissimulare, però ad esempio nei primi anni Novanta si voleva costruire qualcosa di nuovo con la parte migliore di quelli che c’erano già e con la parte migliore dei “nuovi” che potevano sopperire alle mancanze del passato e alle storture che si erano create, rendendo ancora grande la politica italiana: questo ha implicato le ristrutturazioni anche a partire dalle parole, come è stato il caso della DC. Si cercava la novità, anche coi dubbi, ma senza nascondersi; di certo poi per qualcuno i nuovi modi di fare politica sono stati la maniera di impegnarsi senza sentirsi troppo vincolati e “schiacciati” dalla dimensione partecipativa com’era prima. Non è detto che l’abbia salvata, quell’esperienza, e nemmeno migliorata; sicuramente la minore dimensione partecipativa ha reso la politica più simile ad altri elementi della vita degli italiani e delle italiane, qualcosa di sentito, ma fino a un certo punto (e, purtroppo, sempre meno).

L’ultima domanda che ti faccio è questa: secondo te la DC, e in generale i partiti della Prima Repubblica, ci hanno insegnato a “parlare” come parliamo oggi? Sono le nostre fonti d’ispirazione principale per quanto riguarda la retorica politica?

Sicuramente la DC non ci ha insegnato da sola la retorica. Io credo che tutti quei partiti insieme abbiano insegnato la retorica, o vari modi di vederla e di praticarla, ma anche perché era diversa l’Italia, erano diverse le persone ed era diverso il loro rapporto con le parole, come anche i modi di veicolarle. Penso alla forma classica di un tempo, il comizio: in passato militanti e simpatizzanti adoravano sentir parlare le persone a lungo e con verve, senza badare più di tanto all’immagine. Oggi i comizi resistono, ma sono molto diversi [e certamente, aggiungo io autrice, nessun essere umano moderno smartphone-dotato ha la soglia di attenzione tale da riuscire a tollerare un comizio di quattro ore in cui parla una sola persona e bisogna ascoltarla e comprendere ciò che ha detto].

Sicuramente posso dire che la DC ha usato un ventaglio di armi retoriche molto ampio, non so quanto accettabile oggi. Basti pensare alla celebre battuta di Arnaldo Forlani, da poco scomparso: “Potrei parlare per ore senza dirvi nulla”.

Potrebbe interessarti anche